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Copyright Fabio Alcini

Ci sono due modi per scrivere, su internet, un pezzo che si intitola “10 dischi di band italiane che hanno influenzato l’indie”. Uno, diciamo SEO friendly, implica la menzogna e obbligherebbe a citare dischi dei Pooh, Paola e Chiara, Mazinga Z e Cristiano Ronaldo tra i progenitori dell’indie di casa nostra.

Oltre ad attirare clic, si scatenerebbero polemiche dei commentatori che inizierebbero con l’insulto, direbbero che non si può fare una cosa così, che tra l’altro ci siamo dimenticati di The Kolors, nonché del fatto che Mazinga Z è giapponese mentre Cristiano Ronaldo è portoghese, e nessuno dei due è una band, ma intanto alzerebbero il numero delle visualizzazioni (giuro: c’è gente che questi ragionamenti li fa davvero).

L’altro modo è presentare un’opinione il più possibile veritiera, contestabile e passibile di omissioni, ma incentrata su una certa realtà dei fatti. Noi abbiamo stilato una lista che riteniamo piuttosto condivisibile. Non siamo andati alla ricerca di dischi particolarmente lontani o particolarmente oscuri, siamo perfettamente sicuri che ci siano molti altri dischi che hanno influenzato gli attuali musicisti indie italiani. In ogni caso, questa è la nostra opinione, eventualmente facci conoscere la tua.

Afterhours, “Hai paura del buio?” (1997)

Forse non il disco di maggior rottura, forse non un disco perfetto, ma un pugno nello stomaco di portata considerevole, senza dubbio. Che ci si perda dietro divagazioni psichedeliche, che gli si permetta di metterci faccia al muro con pezzi come Male di miele o Lasciami leccare l’adrenalina, che si seguano fino al proprio esito anche le provocazioni senza sbocco, questo disco è tuttora un punto di riferimento innegabile per chiunque prenda in mano una chitarra con intenti bellicosi.

CSI, “Linea gotica” (1996)

Che i sogni siano sintomi, che i sogni siano segni: finiti i CCCP e il loro carico di certezze, rimangono gli smarrimenti degli anni Novanta, che per Ferretti, Maroccolo, Canali, Zamboni e qualche amico, fra cui Ginevra di Marco, iniziano sulla stessa pagina, con Ko de Mondo, poi con il live registrato a Videomusic (Videomusic!) In Quiete.

E poi si comincia con i viaggi, il primo dei quali è quello dall’altra parte dell’Adriatico, con Linea gotica, per scoprire le atrocità dell’assedio di Sarajevo con Cupe vampe, per riscoprire il Battiato di E ti vengo a cercare (con Marco Parente alla batteria e lo stesso Battiato alla voce nel finale), per parlare della guerra che ha spaccato il nostro paese, ma stando dalla parte giusta della Linea Gotica, quella dei partigiani, perché non c’è revisionismo che tenga. Il disco è integro, compatto, senza cedimenti (ce ne saranno, in futuro). Ci sarà poi la Mongolia, i PGR, qualche delirio, ma quanto fatto con i CSI e con questo disco in particolare non si cancella.

Gazebo Penguins, “Legna” (2011)

Rispetto agli altri dischi scelti per questo elenco, qui si salta mediamente un decennio, se non più. Ma per sciogliere i dubbi sull’influenza dei Gazebo Penguins sull’indie odierno bisognerebbe fare un sondaggio tra i musicisti, soprattutto di area hardcore e screamo. Oppure vedere a quanti dischi hanno collaborato in diverse vesti Cottafavi, Sologni e Malavasi (o Piter, Sollo e Capra). In Legna la band fa tutte le scelte giuste, a livello di suono e di contenuti e riesce ad aprire le porte alla band a dimensioni che, visto il genere originario, forse sembravano precluse.

Litfiba, “Litfiba 3” (1988)

C’era una volta, prima dei reality, delle liti, del “corpo che cambia” e di altri disastri, una band di tutto rispetto che si incentrava su personaggi come Piero Pelù, Ghigo Renzulli, Gianni Maroccolo (ancora lui), Ringo De Palma e altri. La band nasce e cresce nella Firenze della new wave, dei Diaframma, del post punk e accontenta ben presto chi è alla ricerca di una band che suoni in modo molto diretto, che metta a segno dei live incendiari, che abbia dei testi in italiano che non si tirano indietro se c’è da parlare di politica o da urlare.

Litfiba 3, che chiude la “trilogia del potere” secondo le testimonianze è il primo disco italiano realizzato interamente in digitale. Insieme all’anthem per eccellenza Tex, qui si trovano divagazioni sul tema della follia come Ci sei solo tu, la malattia ambientale di Peste, le deviazioni placide di Louisiana, l’attacco frontale di Santiago, il pessimismo di Bambino. Sarà l’ultimo disco con Maroccolo (e De Palma, morto di lì a poco).

Marlene Kuntz, “Ho Ucciso Paranoia” (1999)

Anche lì: forse era meglio scegliere Il Vile o (soprattutto) Catartica. Ma è con Ho Ucciso Paranoia che i Marlene Kuntz escono davvero dal guscio, pur senza rinunciare alle frange noise che ancora adornano la giacca di questo disco, vedi il secondo disco di Spore in allegato, o anche semplicemente le chitarre devastate de L’odio migliore. I testi di Godano prendono forme rotonde e toccano alcuni dei propri vertici assoluti, come in Una canzone arresa o In Delirio. Il tutto coniugato con la capacità di trattare macrocosmi e microcosmi (L’infinità e Le Putte) con lo stesso distacco incollerito.

Massimo Volume, “Club Privé” (1999)

Con la produzione di Manuel Agnelli, con collaboratori come Cristina Donà e Steve Piccolo, si direbbe che un disco come Club Privé dei Massimo Volume sia l’apice di una carriera. Invece Clementi, Sommacal e gli altri, dopo poco si sciolsero, ritrovandosi soltanto qualche anno più tardi. Eppure le atmosfere oscure di Pondicherry, le chitarre insistenti di Seychelles ’81, il recitato disperante di Dopo che, le ritmiche de Il tuo corpo affamato, si ritrovano risuonanti (spesso quasi identiche) in numerose, numerosissime band che oggi ci troviamo ad ascoltare e a contrassegnare come originali e innovative, anche in ambiti non immediatamente consecutivi, per esempio quelli genericamente indicati come post rock. Come faremo a uscire da questo fiume di merda puliti e profumati?

Ritmo Tribale, “Mantra” (1994)

Passata la sbornia anarco-insurrezionalista dei tempi di Kriminale, i Ritmo Tribale di Edda si accorgono di potersi incazzare ma anche di avere la capacità di raccontare storie coinvolgenti anche partendo da un punto di vista tremendamente hardcore già con Tutti vs. tutti del ’92. Ma è con Mantra che il “compromesso di sfrenata ambizione” trova l’apice, grazie a Sogna, La mia religione, Ti detesto, Amara, punti molto alti raggiunti da una band sempre vocata alll’autodistruzione, che con la cover de Il cielo è sempre più blu dichiara anche i propri debiti nei confronti della musica italiana d’autore.

Subsonica, “Microchip emozionale” (2000)

Ok, hanno fatto Sanremo, hanno venduto tanti dischi e qualche pezzo è commerciale (quasi tutte cose che si possono dire anche per altre band di questo elenco, tipo Afterhours e Marlene). Ma l’influenza dei Subsonica, e di questo disco in particolare, su tutte le band che mescolano concetti di rock e di dance, frullando elettronica, dub, pop, è indiscutibile. Se i singoli come Liberi tutti, Colpo di pistola, Tutti i miei sbagli hanno contribuito a farne delle superstar, sono pezzi come Sonde o Il cielo su Torino che ne ha rafforzato l’identità, al di là delle generazioni e dei decenni passati.

Tre Allegri Ragazzi Morti, “Piccolo Intervento a Vivo” (1997)

Un universo creativo che comprende il folk, il punk, l’adolescenza, i fumetti, la provincia estrema, il disagio (sì, il disagio), il non trovarsi bene nei panni di nessuno e per primo nei propri, esplode forse con questo disco live, forse con quello prima, forse con quello dopo, ma comunque importa il giusto. I Tre Allegri Ragazzi Morti aprono la loro parentesi alla BMG con questo live elettrico, qui e là scioccante, che regala corazze robuste a pezzi come Fortunello o Come mi vuoi. E se c’è spazio per il divertimento con pezzi come Rock & Roll dell’idiota, per gli omaggi (ai CCCP) con la cover di Per me lo so, c’è la sostanza di pezzi come Terapia contro la nostalgia a tenere unito il popolo, maschere da teschio e tutto.

Verdena, “Verdena” (1999)

Immaturo ma spontaneo, il disco di debutto dei Verdena segnala la possibilità di immergersi mani e piedi nel suono del post grunge e del noise cantando in italiano e senza ripensamenti di alcuna sorta. Le deviazioni sonore sono ancora di là da venire, pezzi come Dentro Sharon o L’infinita gioia di H.B. si segnalano più per la forza propulsiva che per la creatività, ma è impossibile non intuire che qualcosa di grande sta nascendo già a partire da questo album, prodotto da Giorgio Canali, che venderà 40.000 copie in un mercato che comincia già ad avvertire i primi segnali della crisi.

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