Esce oggi Inverni, l’esordio di Giacomo Radi, nome d’arte Hibou Moyen, un disco che racconta storie che sanno di antico e a volte di eterno, basandosi su ingredienti semplicissimi.

Il disco è per lo più costruito su voce e chitarra acustica, con qualche breve eccezione. Ma è il tessuto che conta: testi e musica, in un tutt’uno, si impegnano per raccontare storie né attuali né antiche, che fanno riferimento alle profondità dell’uomo.

Ci sono riferimenti al sesso, alla tortura, oltre ovviamente alle stagioni che costituiscono sostanzialmente il concept, o quanto meno il fil rouge, dell’album.

Al disco collaborano Matteo Berton (illustratore, regista e scenografo del video di “ Grandine”) , Matteo Bencini (artwork) , Renzo Picchi (Nel Dubbio ), Alberto Urbuelli (Fargas) che hanno contribuito alle musiche, e Luca Spaggiari (Fargas) in veste di produttore artistico.

Si parte con Non ci toglieranno i temporali, storia al contrario in cui bello e brutto tempo si scambiano i ruoli e in cui sotto la coltre dei fenomeni meteorologici si nascondono sentimenti e sensazioni.

Sofia è la cronaca poetica di un rapporto sessuale, senza mezzi termini: sulle note tra tango e flamenco della chitarra acustica la voce si fa aggressiva e di tanto in tanto ruggente.

Il primo singolo è Grandine, che segue subito dopo, con morbidezza. Il giro continuo della chitarra sottolinea l’intensità della canzone. Racconto di una sera apre ancora con la sola acustica, ma a un certo punto entra la chitarra elettrica a regalare qualche effetto in più alla narrazione.

Più inquieto l’arpeggio di Skone, che infatti dopo l’introduzione placida si fa molto più arrabbiato e aggressivo. Più calma la breve Il rogo, che racconta delle lingue del fuoco che danzano come in un amplesso armonico.

Ninfea è più mossa, con un piccolo coro e ancora storie antiche. L’ultima Glaciazione è un altro racconto senza tempo, che dopo una partenza tranquilla si incendia e procede verso un apice prima di ritornare dove era partita.

Si chiude con Non Estate, in cui la surrealtà delle parole, che parlano di corone di filo spinato ma anche del 27 del mese e di stipendio, fa contrasto con una costruzione melodica molto dolce. I racconti del disco potrebbero parlare di uomini, di alberi, di sassi, ma la pregnanza di ciò che raccontano li rende comunque vivi, veri e intensi.

Il passo del disco è peculiare e così ritmica, armonia, melodia: si potrebbero ovviamente tracciare paralleli con il folk americano, ma anche sprazzi di rock indipendente italiano (la scrittura dei testi ha qualcosa degli Afterhours, ma senza riferimenti all’attualità).

Ma quello che emerge dal disco è la personalità, unica e sfaccettata, di un costruttore di canzoni e di un narratore che ha lavorato su “Inverni” con grandissima pazienza e cura: ne valeva la pena.