Pochi giorni fa abbiamo raccontato di Alonetogether, il primo disco da solista di Michele Sarda, che ha scelto di farsi chiamare Neverwhere e di seguire i percorsi del folk, pur senza fossilizzarsi sempre sulla struttura voce e chitarra acustica (qui la recensione). Abbiamo intervistato Sarda, che è anche bassista di New Adventures in Lo-Fi e Caplan e chitarrista degli American Splendor, per capire di più a proposito del suo nuovo progetto. Già che c’eravamo, gli abbiamo anche chiesto di segnalarci tre canzoni che hanno segnato in modo particolare la sua vita e la sua carriera, e le abbiamo allegate in streaming a fine intervista.
Puoi raccontare la tua storia fin qui?
Suono in un gruppo più o meno da quando avevo 17 anni. All’inizio facevamo solo cover, soprattutto anni ’90 (Pixies, Nirvana, Blur, Pavement, ecc.), poi abbiamo provato a scrivere canzoni. Nel 2006 ho iniziato a suonare con Enrico (Viarengo) nei Gardening at night, io mi occupavo della voce principale e della chitarra ritmica. Qualche tempo dopo lo scioglimento dei Gardening nel 2011, Enrico mi ha chiesto se volevo registrare chitarre e cori nell’ep Take took taken dei New adventures in Lo-Fi, il suo progetto solista, e io ho accettato. Poi per esigenze di line-up e per il fatto che adoro suonare il basso, sono diventato il bassista della band.
Come mai hai scelto di incidere un disco da solista e perché hai scelto di farlo in quasi totale autonomia?
Negli anni ho accumulato una quantità di canzoni scritte chitarra e voce che non ho proposto a nessuno un po’ perché troppo personali per uscire a nome di progetti di cui non ero il solo titolare, un po’ perché, be’… mi vergognavo. Non pensavo potessero interessare a qualcuno: di solito scrivo per esorcizzare, interpretare, sfogare, per dire ad alta voce qualcosa che ho dentro ma non riesco a fare uscire in altro modo.
Il fatto che io sia riuscito finalmente a registrare l’album è direttamente collegato alla possibilità di poter lavorare in autonomia. Per anni ho oscillato tra il “non frega niente a nessuno” e il “ma perché non posso farlo lo stesso, registro e stampo tutto io”. Poi è nato Dotto, il collettivo di cui faccio parte. Tutto è iniziato con 8 amici che decidono di trovare un posto da usare come sala prove con i rispettivi gruppi.
Da quando ci siamo chiesti: “Cosa succede se mettiamo le nostre teste/competenze/energie al servizio di un obiettivo comune?” siamo passati nell’arco di pochi mesi dall’organizzare concerti ad attrezzare la sala con l’equipaggiamento per registrare, e adesso ci ritroviamo sostanzialmente a gestire una piccola etichetta. Poter lavorare a pezzi così personali con amici come Loris ed Enrico è stata l’ultima spinta che mi serviva per iniziare.
Quali sono state le difficoltà maggiori che hai incontrato nel realizzare il disco, se ci sono state?
La difficoltà più grande è stata proprio prendere il coraggio e decidere di fare il primo passo. Poi la consueta dose di (normalissimi) inconvenienti tecnici: bruciare l’alimentazione di una testata registrando i feedback di “Better than yesterday, worse than tomorrow”; scoprire a registrazioni sostanzialmente ultimate che le voci erano state quasi tutte fatte verso le 17.30 – 18, orario in cui tutti escono dagli uffici del complesso in cui abbiamo lo studio, passando in continuazione con le macchine sopra la sala di ripresa, e così via.
Come nasce “Stranded”?
È uno di quei pezzi che nascono in 5 minuti, testo e musica insieme. L’ho scritta di notte, molto tardi, sussurrandola per non svegliare le mie coinquiline. Avevo bisogno di parlare di quanto mi sentissi bloccato, inerme, senza via d’uscita in quel periodo. È il pezzo che ci ha dato più filo da torcere in fase di arrangiamento. Non riuscivamo a trovare le idee giuste per dargli la forma che volevamo.
Ho un video in cui Enrico sta registrando una traccia shakerando una bottiglietta d’acqua semivuota. Penso che quello sia stato il momento in cui abbiamo capito che ci eravamo, ironia della sorte, bloccati. Abbiamo ricominciato da capo puntando sulla semplicità e non abbiamo più incontrato grandi difficoltà.
Perché hai scelto “Ask the Stars” come singolo e come apertura del disco?
Perché pur essendo il brano più recente (l’ho scritto poco tempo prima di iniziare a registrare) dà secondo me un’idea organica della musica che faccio, più di una “Better than yesterday, worse than tomorrow”, o di “Outcast manifesto”, pezzi che se messi in apertura avrebbero rischiato di essere fuorvianti. Mi piaceva iniziare mettendo le carte ben visibili sul tavolo. In più tra tanti pezzi che parlano del mio passato questo parla di me adesso. Usarlo come apripista è stata una scelta che ha un forte significato simbolico per me.
Puoi raccontare la strumentazione principale che hai utilizzato per suonare in questo disco?
Certo. Ho suonato prevalentemente una chitarra a 6 corde molto particolare: è una parlor guitar, cioè uno strumento usato dai chitarristi folk-blues americani per le feste nei granai, è più piccola del normale ed è degli anni ’40. Poi una Yamaha a 12 corde, che ottenni in cambio della mia primissima chitarra elettrica, e la mia elettrica Fender Jaguar. Ho suonato anche la chitarra di Enrico e il basso di Loris, entrambi marchiati Rickenbacker.
Chi è o chi sono gli artisti indipendenti italiani che stimi di più in questo momento e perché?
Il primo della lista è sicuramente Urali, alias Ivan Tonelli, anche chitarrista dei Cosmetic. Distorsioni che piovono dal cielo al servizio di melodie dolcissime: un sogno. Ho sempre sentito una forte appartenenza alla scena dell’Emilia-Romagna e dintorni, sarà perché ci sono più ascolti in comune di background, o perché si suonano un po’ di più generi a me molto affini, non lo so.
Sta di fatto che se rileggo la domanda adesso i primi nomi che mi vengono sono Three in one gentleman suit, ThreeLakes, Debris Hill, Girless and the orphan, e da lì Goldaline my dear, gli And so your life is ruined, Give Vent. Poi impazzisco per Caso.
Puoi segnalarci tre canzoni che hanno segnato in modo particolare il tuo percorso?
Sea change mi dimostrò che se addirittura Beck può essere triste e fare un disco del genere, allora forse non c’è niente di male a sentirsi tristi.
Un registratore a 4 tracce, un paio di chitarre: non serve molto di più.
La band che amo di più al mondo.
[…] Traks – In The […]