Testo e foto di Fabio Alcini

Il Flowers Festival 2019 prosegue alla Lavanderia del Vapore di Collegno (Torino) con una delle serate più significative di quest’anno. In pista questa sera ci sono tre delle realtà indipendenti più interessanti in assoluto, ognuno secondo categoria di peso.

Apre Fulminacci, cantautore-con-band che è sotto contratto con Maciste Dischi e che è uno dei prodotti più recenti e più notevoli della “nuovissima” scuola romana, sempre più produttiva e sempre più sorprendente.

Sale sul palco e già sta cantando Tommaso, uno dei pezzi più notevoli de La vita veramente, disco d’esordio che qui sarà piuttosto ben rappresentato. Benché su disco il progetto possa sembrare inserito nel classico alveo del synth pop che domina ovunque, su palco si porta una formazione piuttosto muscolare che suona davvero e suona anche bene.

Accenna a qualche pizzico di beatbox per annunciare la title track del disco, altro pezzo ritmato. Poi però dice: “Ritorniamo un po’ romantici” ed ecco allora Una sera, ballad intima e gentile che chiude il disco.

Poi il colpo a sorpresa (ma noi di TRAKS lo sapevamo già), cioè la cover di Stavo pensando a te di Fabri Fibra, “Un grande maestro della musica italiana”, mascherata come fosse Amarsi un po’ di Battisti. Il basso a cinque corde si tende e vibra per La soglia dell’attenzione, poi due canzoni che non sono nel disco e che Fulminacci esegue solo chitarra e voce, spiegando che non c’è stato tempo di arrangiarle, ma che in realtà potrebbe essere una scelta di marketing perché poi il pubblico le sente e le chiede… Il ragazzo è così tutto il tempo: dispensa battute, dialoga con il pubblico e i musicisti (tutti “maestri”), sempre con quella faccia da mezzo funerale, però, sotto il cappellino.

Unico problema è che in qualche pezzo gli strumenti sovrastano un po’ la voce: problemi di regolazione, probabilmente, che però fanno perdere un po’ la misura qui e là. Si va poi sulla “silvestriana” Borghese in borghese verso la fine di un set comunque decisamente convincente.

La Rappresentante di Lista: suoni e colori

Tocca a La Rappresentante di Lista, formazione di origine siciliana colorata, pop ma anche “drammatica” in tutti i sensi del termine. Il quintetto, capitanato da Veronica Lucchesi e Dario Mangiaracina, sale sul palco ed è già spettacolo. Soprattutto per il vestitino con calze a rete schierato da Mangiaracina, ma anche per duelli di sax, luci colorate, saltelli e varie.

La Lucchesi entra per ultima, con un vistoso k-way rosso che svolazzerà ovunque e sempre. Ti amo (nanana) è il brano scelto per rompere un ghiaccio che in realtà non sembra esserci proprio: il pubblico è già conquistato e canta molto, confermando la popolarità crescente della band.

Si prosegue con Alibi e poi Guardateci tutti, che apriva il disco del 2018 Bu Bu Sad. Invece Woow chiude Go Go Diva, ultimo album pubblicato pochi mesi fa e protagonista del salto di popolarità della band. Le canzoni della Rappresentante riescono a fare d’accordo modalità del tutto pop (con urletti, coretti, piccoli fonemi ripetuti) e una sostanza autorale importante.

Se a questo si somma un movimento continuo sul palco, dove niente rimane statico per più di una frazione di secondo si avrà l’idea di un intrattenimento davvero a tutto tondo. Veronica annuncia una canzone che ti dice “Ci penso io a te”, ed ecco Questo corpo, probabilmente il singolo di maggior successo.

E subito dopo un’altra hit, o quello che è, cioè Maledetta tenerezza. Lo spettacolo continua a regalare luci, colori, danza, con la ben nota provenienza teatrale dei cinque che esplode in tutte le sue virtù. La Lucchesi ogni tanto sembra una Olivia Newton John mora, attorniata da luci colorate molto 80s, mentre il resto della band salta di strumento in strumento.

Ecco poi Siamo ospiti con una dedica che non è difficile leggere in chiave anti-Salvini. Si prosegue con Bora Bora e con Gloria, con gli influssi sonori che saltano dall’etnica alla dance, senza che la tensione scenda mai. Né può scendere con l’esplosività di Mina vagante. Si sconfina quasi nel rituale sul finale di uno “spettacolo” vero, completo e scomposto, a tratti entusiasmante.

Motta: talento clamoroso e contrasti forti

Per la gioia dei fotografi, Motta invece entra nel buio semiassoluto e parte da La fine dei vent’anni, e per un attimo ti viene il dubbio che potrebbe fare tutto il concerto così, tanta è la forza che esce dalla sua gola.

Non sarà così ma i contrasti saranno la dominante del concerto: Quello che siamo diventati urla più forte che su disco, ma questo vale per molti dei brani in scaletta.

Si torna al pluripremiato La fine dei vent’anni, disco d’esordio da solista, con Del tempo che passa la felicità, e il pubblico è già in delirio per un Motta decisamente in forma. Salta sul palco come una biglia impazzita e regala quella voce forte che non si capisce da quale parte di quel corpo magro esca.

Forti sono anche le immagini che il cantautore toscano sa regalare visivamente, per esempio quando finge di impiccarsi con il cavo del microfono. Ecco Se continuiamo a correre e tutte le sue asprezze.

Poi comincia a parlare ed è inevitabile riferirsi a polemiche piuttosto recenti. Giusto per essere chiarissimi la frase chiave è: “Non c’è niente di male nell’avere un pensiero di sinistra“. E i simpatici amici del “sei un cantante/fai il cantante” posso allegramente andare a prendersela in quel posto (la chiosa è di chi scrive, non di Motta, per chiarezza).

Nella presentazione Motta spiega come da ragazzo pensava che le persone più importanti della sua vita fossero Lou Reed, i Velvet Underground, i Pixies, ma poi con la distanza ha scoperto che erano suo padre e sua madre. E quando dice che gli mancano tantissimo sembra nascondere un attimo di commozione, girando le spalle al pubblico e iniziando a cantare Mio padre era un comunista, in versione molto intima e con poca luce rossa.

Tocca poi a Vivere o morire, ormai un classico, dopo aver chiesto se poteva “raccontare un po’ di cazzi miei”. E anche un’altra pennellata: “Ci siete stati a Livorno? No? Vi perdete un cazzo”. La sigaretta sul palco e la voglia di chiacchierare. Del resto si diceva: è un concerto di contrasti, perché il ragazzo che percorre il palco come se fosse casa sua è tranquillo, sorridente, perfino chiacchierone. Invece nelle canzoni c’è ancora il Motta tormentato e cupo, coerente con cose che ha scritto ormai qualche anno fa.

Vivere o morire riserva anche un siparietto: si interrompe, dice “Se ne dicono cazzate nelle canzoni ve’?” prima di intonare il verso “non riesco mai a stare con una donna sola”. E guarda verso la Crescentini, della quale e con la quale parlerà per mezzo concerto.

Torna l’acustica nera per Sei bella davvero, con breve spiegazione antiomofobica iniziale. Intanto, dal punto di vista sonoro si torna alla formazione completa e più rock, con il pubblico che partecipa ai cori.

E mentre Motta continua a lanciare le chitarre al roadie rischiando il disastro ogni volta (ma non succederà) c’è spazio per una più elettronica Chissà dove sarai. C’è un siparietto anche a proposito delle foto: intanto avverte “Occhio che stasera c’è un Motta che ride”, poi parla di FaceApp per introdurre “la paura di invecchiare” contenuta in Prima o poi ci passerà.

Primo momento di stacco forte è con Cambio la faccia, che emerge dal passato dei Criminal Jokers con derive psichedeliche e strumentali molto allungate. Lui, per lo più, fermo in mezzo alle luci e ai suoni che roteano.

Il brano dura molto a lungo e poi lascia spazio a una doppietta “di peso”: La nostra ultima canzone e Dov’è l’Italia, raccontata con aneddoti che lo legano a Torino, anche grazie ai musicisti e ai panorami che lo hanno aiutato a scrivere il pezzo che poi ha portato con successo a Sanremo.

Riesce a dire: “Vi voglio bene tanto”, mentre continua il dialogo a distanza, a tratti un filo confuso, con la Crescentini. Della quale, peraltro, dice che la prima volta che si è presentata a casa sua aveva due bottiglie di vino e una di vodka. Ma siccome non si può scrivere “vodka” nei testi per ragioni di metrica e di rima, ecco che sono rimaste soltanto le bottiglie di vino ne La prima volta.

Altri racconti di festival piemontesi antichi (“Sono anni che piscio negli autogrill e mangio Camogli. Buoni eh? Però dopo un po’…”) e di disavventure, prima di proporre un altro pezzo dei Criminal Jokers, Fango (“Se non li faccio io questi pezzi non li fa nessuno”).

E niente, a un certo punto dice che non è soltanto lui a scrivere canzoni tristi e gli parte la disneyana Non a Nottingham, cantata in modo quasi serio. Questa parte del set però ritrova compostezza e una commossa chiusura con Mi parli di te, sentitissimo brano dedicato al padre.

Siamo già ai bis e quando rientra il simbolo luminoso alle sue spalle forma il nome “MOTTA”, mentre si torna allo psichedelico spinto, luminoso, rumoroso e tempestoso di Roma stasera.

Motta sale sulle casse, si inginocchia, si arrampica sulla batteria, picchia sulle percussioni, non si risparmia nulla. E’ mezzanotte, l’ora delle streghe è scoccata e il simbolo alle spalle dei musicisti sembra una specie di pentacolo, perfetto per un altro pezzo stregonesco e fulminante come Ed è quasi come essere felice, con il cantautore che torna a “impiccarsi”, dopo aver mimato anche una crocifissione. Il sabba è completo.

Ma il concerto no: il ragazzo di Livorno ha ancora voglia di un ultimo abbraccio, che arriva con Abbiamo vinto un’altra guerra suonata senza amplificazione perché i limiti di orario sono stati ampiamente superati. Tutti i musicisti sono seduti sulle casse, la canzone è ascoltata principalmente dalle prime file, ma tutti i presenti al live capiscono di essere stati parte di un evento davvero speciale, alla presenza di un talento come pochissimi.

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