C’è gente che 63 dischi nella vita neanche li ha ascoltati. Invece, secondo Wikipedia, Enrico Gabrielli aka Enro Winston in 42 anni ha firmato o partecipato a qualcosa come 63 album, con Mariposa, Calibro 35 e naturalmente The Winstons, oltre che con altre decine di progetti concepiti nel corso degli anni. Oggi lo intervistiamo proprio in qualità di membro del terzetto psichedelico che ha pubblicato qualche tempo fa il secondo album Smith e che di recente ha pubblicato il nuovo video, Ghost Town e che ripartirà in tour a fine mese.

Quando avete messo insieme The Winstons quali erano le vostre aspettative? E tu personalmente pensavi alla band come a uno dei moltissimi progetti a cui hai partecipato oppure se avevi aspettative più concrete?

Eh… E’ una domanda talmente semplice che non so dare una risposta chiara. Non ci ho mai capito niente. Non so: anche in generale più cresco più faccio fatica a vedere le cose in prospettiva, in generale. Mi sembra normale che, man mano che uno diventa più grande, il futuro in realtà si restringe.

Per cui quando fai una cosa, secondo me è anche sano pensare che la fai per il momento in cui la fai. Poi se questa cosa in realtà richiede uno spazio-tempo più ampio vuol dire che ha una necessità di svolgersi in più spazio e anche in più tempo.

The Winstons: in realtà avevamo necessità di farlo, e poi abbiamo avuto anche necessità di rifarlo. E penso che avremo necessità di rifarlo ancora. Sarà sempre così. Però non siamo un progetto d’équipe di lavoro, non siamo una struttura nata a tavolino. Suoniamo da tantissimi anni e siamo amici da bar.

Abbiamo già suonato tante volte insieme in tante cose, incluse quelle di Roberto (Dell’Era aka Rob Winston, Ndr). Siamo in realtà la “garage band da grandi”, diciamo. Non l’abbiamo fatto a sedici anni, l’abbiamo fatto a… una veneranda età.

La domanda nasce da un pensiero: un trio che suona musica influenzata dalla psichedelia anni ’60, da Canterbury eccetera, non sembra essere un progetto che abbia, come dicono quelli che se ne intendono, “un mercato”. E invece…

Ma anche lì: noi siamo musicisti che suonano strumenti veri, già questo ci fa diventare di base persone fuori dalla logica del mercato, proprio di default. Era inutile stare a fare discorsi su quello che è di moda o che non è di moda nel momento in cui imbracci un basso elettrico, un organo o un sassofono. E Lino ha in testa i Roxy Music. Non hai chance.

L’unica chance che puoi avere è vivere l’aspirazione e la tua vita senza pensare troppo al presente. Un orologio fermo, come diceva Lewis Carroll, due volte al giorno fa l’ora perfetta. L’orologio che è sempre in ritardo o sempre in anticipo non fa mai l’ora perfetta. Noi non vogliamo essere un orologio in anticipo. Meglio un orologio fermo.

E’ stato più facile o più difficile realizzare il vostro ultimo album, Smith, rispetto al vostro esordio omonimo?

Ah è stato molto più difficile, è stato “un casino dell’ostia” (Enrico/Enro è nato a Montevarchi ma ha vissuto parecchio a Milano e si sente da alcune espressioni che di tanto in tanto gli fioriscono spontaneamente, Ndr). Abbiamo avuto ritardi di tutti i tipi. Molto semplicemente il primo disco l’abbiamo fatto in uno stesso studio, che era La Sauna a Varano Borghi, registrato da Andrea Cajelli che purtroppo non c’è più e al quale abbiamo anche dedicato questo disco qui.

Mentre questo nuovo disco lo abbiamo registrato nel corso dei tre anni successivi tra un tour e un altro, tra uno spostamento e l’altro. Il grosso lo abbiamo fatto nel Buckinghamshire con il figlio di Mike Oldfield, poi una sessione alla Sauna, una sessione allo studio di Padova, una sessione al Noise Factory di Milano, una sessione al Laboratorio TestOne di Tommaso Colliva. Il casino è stato trovare la persona giusta che facesse un lavoro di recap, di sistemazione di tutto questo materiale vagante. Ed è stato Tommaso, alla fine, a cui abbiamo chiesto implorando cortesemente…

Stavamo proprio perdendo il filo, ci abbiamo messo un casino, è stato un inferno! Poi gli ospiti li avevamo già preventivati ma abbiamo registrato la voce di Nic Cester una settimana prima della chiusura del matering, e abbiamo fatto uscire il disco in un momento dell’anno strampalato. Infatti sta uscendo di nuovo ora, perché abbiamo sballato tempi e orari d’uscita, quindi è come se adesso facesse la sua vita vera.

Per cui è stato difficilissimo. Ciononostante siamo molto contenti.

A proposito degli studi di Mike Oldfield in Inghilterra: che esperienza è stata e che cosa ci avete trovato?

E’ lo studio di registrazione post Tubular Bells, se l’era comprato in realtà più o meno per fare Moonlight Shadows, quel singolo lì grosso modo. E’ uno studio di campagna in un cottage bellissimo, esattamente come uno si immagina che sia. Immerso nel bosco, tra le mucche e i cavalli.

Poi papà Mike, che ha avuto una vita famigliare abbastanza disastrosa, ha divorziato e il figlio Luke ha preso lo studio, che è tipo anni Settanta come concezione, per cui è bellissimo ma allo stesso tempo molto semplice.

Ha la sala di ripresa con le classiche piastrelle un po’ retrò, tutto il materiale nastro, trip, che sono ancora, credo, quelli lì del papà. E’ tenuto in maniera famigliare, l’unica cosa un po’ bizzarra è che c’è il mellotron di Rick Wakeman, anche se non so se è proprio il suo oppure se è passato di lì e ha fatto l’autografo.

Luke è un ragazzo biondino, simpatico, gentile, che abbiamo conosciuto grazie a Colliva al Toe Rag Studio di Londra, che è famoso per essere un intero studio analogico rimasto fermo al ’67. Questo studio qua gli fa un po’ il verso senza essere però straight edge sull’analogico.

Mi sembra che mentre nell’esordio avete un po’ testato le acque, in questo avete preso direzioni più nette e determinate. Quali erano le vostre idee di partenza?

Un generico, vaghissimo mondo glam. Inteso glam storico, soprattutto i Roxy Music, un rock’n’roll anni Cinquanta rifatto in versione Seventies, e poi rimesso di nuovo a nudo nei nostri anni. Perché un po’ l’attitudine ce l’abbiamo naturale, anche quella di truccarci un po’ e stiamo un attimo attenti a come ci vestiamo perché abbiamo voglia di divertirci su questo.

Non arriveremo mai alle calze a rete, ma comunque il concetto era un po’ quello… Un po’ alla Rocky Horror Picture Show, anche se poi per ragioni di spazi, guardaroba, viaggi non lo abbiamo mai fatto. Comunque siamo tre personaggi ritagliati bene, quindi ci basta poco per sembrare tre personaggi di uno strano film della controcultura anni Sessanta.

Infatti proprio adesso abbiamo fatto uscire due video (Around the Boat e Ghost Town, Ndr) che delineano proprio questo status quo. Questo stato mentale, questo stato visivo.

Nel video di Ghost Town si capisce un po’ quella che è l’intenzione del disco. Una generica lisergia mista a crudezza, un glam crudo senza piume ma combattivo. Un glam combattivo. Combat glam, diciamola così.

Ci sono un paio di ospiti illustri nel disco, come Richard Sinclair (uno che ha suonato coi Caravan, coi Camel, con Robert Wyatt) e Nic Cester, che ha nobiltà più recente ma non minore: quale il vostro rapporto con loro e quale il contributo che hanno dato al disco?

Nic è un amico carissimo di tutti noi, anche lui è un amico da bar. Viviamo tutti a Milano (in realtà io vivo a Torino da aprile ma la mia testa rimane a Milano, c’è poco da fare). Quindi serate da bar, ci vediamo con Nic da tanti anni, io ho anche lavorato nel suo disco. Quindi avevamo questo pezzo molto Rolling Stones (Rocket Belt, Ndr), lui è venuto in studio, ha tirato giù due gridate, fantastiche, e così è venuto.

Mentre Richard Sinclair l’aveva conosciuto Roberto a Taranto perché Sinclair vive in un trullo da otto anni. Non parla ancora una parola di italiano, è simpatico, sgangheratissimo, pieno di aneddoti, anche leggermente logorroico, come penso sia normale per le persone che si sono un po’ bruciacchiate in quegli anni…

Quindi gli abbiamo fatto fare questo brano qua dei Wilde Flowers che in realtà è un pezzo della primissima formazione ancora prima dei Soft Machine, c’erano Wyatt, Hopper, Sinclair, forse il fratello, tutta la scena di Canterbury prima che diventasse tale. Avevano fatto una manciata di canzoni fra cui Impotence, gli abbiamo chiesto se voleva farlo.

E lui entusiasticamente ha accettato, in cambio di un obolo per tirare avanti, perché lui è anche molto amareggiato per come l’industria discografica lo ha trattato negli anni Settanta. Quindi abbiamo fatto un’opera pia…

Siete in partenza per il tour. Che cosa ci si deve aspettare dai vostri live?

Il meglio! No in realtà facciamo questa serata a Roma il 31 ottobre, Halloween, che fra l’altro è una festa che io odio a morte, però comunque è una classica serata in cui si suona, insieme agli Acid Mother Temple all’Angelo Mai. Poi facciamo un po’ di altre date dopo che sono ancora in via di definizione.

Be’ i Winstons sono un’esperienza liberatoria fatta di sudore, muscoli e sangue. Senza dover per forza ricorrere a elettronica o a movida idiota. E’ un sano divertimento, è una bella scatola di costruzioni, piuttosto che un cazzo di iPhone con Peppa Pig.

Movida idiota da voi credo che non ce la si aspetti…

No poi noi lavoriamo a stretto contatto con gente che fa comunque anche “quell’altra” musica, quella che ci fa schifo. E’ bene saperlo che noi siamo inseriti in realtà in un tessuto sociale che non è schizzinoso. Siamo molto amici di gente che comunque farebbe inorridire le persone puriste!

Comunque conosciamo anche i lati tremendi della discografia italiana. Io stesso sono una persona che lavora spesso nel contesto del pop, anche Roberto e Lino. Abbiamo una visione abbastanza onesta della vita. Non siamo disillusi, amareggiati, siamo molto tranquilli. Noi facciamo la nostra roba, chi ha voglia di evadere bene, se no va bene quello che c’è.

In effetti come Winstons siete una specie di cometa brillante e molto lontana dai cieli della musica italiana. Ma smessa quella maschera lì siete tre musicisti che la scena la conoscono piuttosto bene e da vicino. Qual è il giudizio su questo particolare momento?

Penso che nella discografia adesso ci siano tantissimi soldi che girano ma in delle bolle enormi che riguardano rapporti generazionali diversi dal mio. Io sto diventando comunque un musicista maturo, conosciuto soprattutto nel circuito dei “tecnici”.

Faccio l’arrangiatore che ormai l’è un mesté che ormai non fa più nessuno. Per cui penso che il mercato sia fiorente. Non sono nella zona fiorente del mercato, personalmente, ma reputo sano stare dove sto. Perché essendo molto mobile il mercato, è giusto in qualche maniera starsene un po’ a distanza e guardarlo da lontano.

Perché si ha più chiara anche la visione di se stessi. Se io fossi dentro, in mezzo, al trend, farei probabilmente un sacco di schifezze di cui mi pentirei poi nel tempo. Non è il momento di pentirsi. Poi magari a sessant’anni sono talmente rincoglionito che mi metto a fare robe orrende… Mi do ancora qualche decennio di tempo. Può succedere!

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