Si chiama Minneapolis il nuovo disco di Paolo Forlì, anzi di Paolo For Lee, come il cantautore di San Benedetto del Tronto ha deciso di farsi chiamare, non senza un pizzico di ironia.

Dodici canzoni costruite quasi del tutto in solitaria, spesso intime, quasi sempre con chitarra, voce ed effetti, ispirate alla lontanissima e poco conosciuta città statunitense.

Paolo For Lee traccia per traccia

C’è la sei corde acustica a fornire gran parte dei colori a Minneapolis, la title track che apre su idee pensate e rimeditate, un cantato che fa pensare a Paolo Conte, e un organo a chiudere il discorso.

La voce è filtrata in My City 1952 (to Clifford D. Simak), che propone un’atmosfera chiaramente vintage, ma anche piuttosto malinconica, visto soprattutto il lavoro del pianoforte.

Ancora filtri per The Last prayer (to Isadore Blumenfeld), che però è incalzante, incattivita, minacciosa. Si torna a toni più intimi con Bad creatures I know, solo voce e piano.

Contrasti in atto su In Love and War, in cui la chitarra acustica disegna un panorama adatto alla voce, questa volta priva di filtri e provvista invece di una notevole dose di calore.

Acustica protagonista anche per Hidden in a furnace (terephtalic acid/song in code), che non cambia in modo sostanziale umore rispetto al pezzo precedente.

Cambio di atmosfera piuttosto netto quello operato da The Passionate Mulder, che introduce percussioni rumorose e rinuncia per un momento al minimalismo delle altre composizioni.

Curioso l’esperimento di Conversation with Frank Rayner, che sovrappone una conversazione, appunto, a un pezzo punk che si avverte appena in sottofondo.

Si rientra nei canoni con Ten times harsh: di nuovo voce, chitarra e poco più, con il livello di intensità che si alza a livelli piuttosto seri.

Note risonanti di pianoforte fanno da lastricato alla morbidissima Do you remember? (faithful to Husker Du): la canzone è costruita con pezzi di brani della band del Minnesota citata nel titolo, come in un gioco di collage.

The Riley’s Song si aggira sulle arie del talking blues ma assume un tono da conversazione, quasi da confidenza, riportando alla mente un qualche Tom Waits antico.

Il sipario cala su It’s all over, che torna a proporre elementi semplici, ma che chiude su note d’organo, così come era successo per la title track in apertura, chiudendo il cerchio.

Il disco è consistente, ricco di sfumature, intenso e appassionato. Tutte le quaità e la maturità da songwriter, ma anche da esecutore, di Forlì/For Lee emergono senza nessun tipo di remora.