Un paio d’anni dopo Elvis i Baustelle sono di nuovo in pista: El Galactico è il nuovo album della band. E venticinque anni dopo il Sussidiario illustrato, Bianconi-Bastreghi-Brasini danno vita al decimo album della carriera della formazione nata a Montepulciano.

I brani sono dodici ma il disco corre molto veloce, a dispetto di suoni che viaggiano verso la West Coast e che dovrebbero in teoria bearsi di panorami solari e tramonti dorati. Ma in questa Summer of Hate che ci attende forse i testi taglienti dei Baustelle sono quello che ci attrezza meglio alla realtà.

Baustelle traccia per traccia

Pesaro non sarà una donna intelligente, come invece diceva un tale, ma è il luogo di partenza di questo album: il sound pieno, scintillante dell’album è già qui e si fa sentire in maniera consistente, con il cling clang alla Byrds e con tutte le vibrazioni vintage. Storie d’amore e morte a Pesaro, ma è un po’ come fosse Frisco nel ’67.

Ci sono ricami sonori generosi in Spogliami: “Con algoritmi e pose/sfioriscono le rose/in allegria“. La posizione di partenza è chiara, l’amore ormai è un’illusione lontana, è rimasta la carne e poco altro. Una canzone ricca di frasi citabili (“E’ meglio il nucleare/dell’autofiction scritta male“) punta dritta a una sorta di liberazione, con qualche ombra cupa nel finale.

Ci sono anche i coretti in Canzone verde, amore tossico, tra metafore di coltivazione, questioni ambientali e riferimenti a personaggi realmente esistenti (e qualcuno inventato, tipo “Vittorio Feltri“. E’ inventato, vero?) Le “immondizie musicali” di battiatiana memoria tornano a infestare, mentre realtà e allucinazioni si mescolano, con una trombetta tipo anni ’80 chiude un pezzo che sa di beffardo.

Rachele racconta di Barbie, di morfina, di Schifano, in una sorta di inventario che va a comporre La filosofia di Moana. “Ho trovato un solo modo di essere felice“, cioè essere adorati, costi quel che costi. Le sonorità sono dorate, il ritmo è alto, la storia che ammicca alle vicende di Moana corre veloce, come la gloria passeggera.

C’è un buio improvviso con Una storia, che è stata scelta come singolo ma che non è esageratamente rappresentativa del sound del disco: tra citazioni pop e atmosfere da ballata vintage, un coro struggente si alza, a raccontare una storia di violenza su una donna, con piccoli dettagli da cronaca nera, che purtroppo ci sono sempre più famigliari perché ne leggiamo con abbondanza tutti i giorni, vista l’emergenza continua.

Ecco poi L’imitazione dell’amore, che ha un ritmo molto battente ma anche una struttura particolare, con piccole pause un po’ allucinate, mentre il cantato corre e si fa molto fitto. Un’inaspettata celebrazione della vita, o almeno della sopravvivenza, chiude il brano.

Tra i Baustelle e il West c’è L’arte di lasciar perdere, anche questa capace di correre e di infilarci anche uno “yeyeye”, ma ormai ci è chiaro che l’atmosfera da Summer of Love è limitata ai suoni. I concetti sono sempre piuttosto amari, anche se a volte raccontati con un sorriso e un po’ di sarcasmo.

Nell’apocalisse mi esplodevano le tempie“: parte con immagini definitive Giulia come stai, altro personaggio femminile che va ad accrescere la collezione del gruppo. E la canzone è molto da Baustelle, forse più del resto del disco, per costruzione e per narrativa. La guerra è mondiale ma l’estate è nostra; il ministro dello Stato è un coglione, ma l’essenziale è tenere ferme le vertebre.

Di nuovo Rachele fa la prima voce su Lanzarote, sospinta dagli archi: la tentazione di affogarsi (e di bestemmiare) per un cuore spezzato e per un mondo migliore, che tutto sommato potrebbe assomigliare a quello vacuo in cui viviamo, tra storyteller e “contenuti” da produrre, in qualche isoletta inutile.

Tutt’altra atmosfera quando cala La nebbia, che ha di nuovo gli archi ma utilizzati con umori del tutto differenti: immagini positive si susseguono mentre Bianconi veste gli abiti del cantore struggente, in un brano che sa molto del Battiato della maturità. La notte, l’assenza, lo stare bendato e soprattutto la guida a Pavia consentono di guardare dentro la propria mente, cancellando la realtà e rifugiandosi nella propria nebbia interiore.

A chiudere ecco Non è una fine, strumentale scintillante e con qualche coro a regalare un ultimo sguardo nostalgico, ma anche molto Galactico.

E’ una soddisfazione quasi fisica constatare che una band ormai “storica” (definizione che sicuramente ai Baustelle farebbe venire l’orticaria, ma la storia dice questo) abbia ancora così tanta voglia di novità. Soprattutto a livello sonoro, con un disco progettualmente proiettato in un’epoca diversa e lontana, ma molto affascinante. Il vintage lo fanno un po’ tutti, è vero. Ma il vintage ti fa male se lo citi senza stile.

Sulle canzoni dei Baustelle si può contare sempre: il disco corre a tutta velocità, come se ci fosse un’urgenza non solo creativa ma proprio produttiva. I tempi corrono forte e i Baustelle li superano, li riempiono di contenuti trasversali e spesso laterali, li farciscono di suoni che sanno di falò californiani, ed ecco fatto. Viene voglia di riascoltarlo subito.

Genere musicale: alternative pop

Pagina Instagram Baustelle

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