Today, tomorrow, and yesterday, too
The flowers are dyin’ like all things do
Follow me close, I’m going to Balian Bali
I’ll lose my mind if you don’t come with me

Bob Dylan, “I Contain Multitudes”

E’ rimasto davvero l’ultimo dei giganti: ti accosti al nuovo disco di Bob Dylan consapevole che potrebbe essere l’ultimo, e quindi c’è una sorta di rispetto religioso nell’approccio. Del resto è arrivato perfino il Nobel per la letteratura a certificarne definitivamente lo status tra gli eterni, come se non bastassero i milioni di cantautori che ne hanno copiato lo stile, la forma delle canzoni, perfino il pessimo carattere.

Però è evidente che questo mondo malato abbia ancora bisogno di Dylan. Non perché sia uno che ti conforta, tutt’altro. Non c’è traccia di “andrà tutto bene” nel suo nuovo disco (e neanche nei precedenti, a dire il vero), piuttosto ci si aspetta una verità sbattuta in faccia, una verità che non avresti voluto guardare ma che è bene che tu conosca.

Rough and Rowdy Ways è il titolo del nuovo lavoro, il primo di inediti da un’eternità. Si può tradurre con “Modi difficili e turbolenti” (o almeno così dice Google Translate) ma in realtà i modi “sonori” sono piuttosto tranquilli. E tutto sommato i testi sono per la maggior parte più meditativi che bruschi. Quindi forse l’uomo del Minnesota fa riferimento più alla vita, alla propria e a quella di tutti, con questo titolo.

Il primo verso che si ascolta nel disco parla di “Today, tomorrow and yesterday“: a 79 anni è abbastanza normale guardare quello che hai lasciato alle spalle, soprattutto se hai alle spalle una carriera e una vita come la sua. Ma è piuttosto significativo che il vecchio cantore apponga in cima al disco, in apertura a I Contain Moltitudes, un riferimento temporale che contempla tutte e tre le direzioni possibili.

E questo incipit, in una canzone che si riferisce al fatto, semplice soltanto in apparenza, che siamo la somma di tutte le numerose esperienze che viviamo e delle personalità che siamo stati nel corso della nostra vita, dà il tono a un disco che ha per lo più un fare contemplativo e meditabondo, come un bilancio a fine corsa, per riflettere su che tipo di percorso si è sostenuto.

La voce si è fatta piena e un po’ meno ronzante di un tempo, ma è soprattutto l’autorevolezza di qualcuno che veramente ha visto tutto e può permettersi di tutto, perfino di citare Indiana Jones e “quei cattivi ragazzi inglesi”, i Rolling Stones. A livello di suoni ormai da anni il blues ha preso il posto centrale sul seggio del Re, lasciando il folk delle origini e il rock’n’roll a funzioni ancillari.

C’è spazio anche per l’amore, che in I’ve Made Up My Mind to Give Myself to You diventa un’ammissione di resa: si ondeggia come in un lento d’altri tempi, parlando del “Vangelo dell’amore”.

Anni a chiamarlo “Menestrello” ed ecco che per una canzone si traveste davvero da tale, però per parlare invece di morte: Black rider si arricchisce di stornelli e arpeggi ma soltanto per porsi faccia a faccia con il nero cavaliere che lo condurrà dall’altra parte del fiume. Un piccolo poema di intensità assoluta.

Si parla di morte, in fondo, anche in Goodbye Jimmy Reed, ma il brano è un blues molto mosso, dedicato all’omonimo bluesman, pioniere della chitarra elettrica. E il pensiero corre a quel momento in cui Dylan stesso abbandonò l’acustica per l’elettrica e lo accolsero con fischi e grida tipo “Judas!”.

I riferimenti si fanno molto alti, divini perfino, quando si canta piano della Mother of Muses. E c’è Giulio Cesare, nientemeno, che sempre a ritmo di blues getta il famoso dado in Crossing the Rubicon.

L’antica arte del raccontare fatti di storia e di cronaca, qui attraverso il pianoforte, il violino e la propria voce, si rinnova in una ballad come Murder Must Foul, che parla di JFK e del suo assassinio, con un’attitudine noir più da testimone che da storico. Il pezzo, pur presentato come primo singolo in tempi di pandemia, è un excursus lungo oltre sedici minuti posto a conclusione del disco, a fare da contraltare quasi analogo a I Contain Multitudes, che apriva l’album.

Senza fronzoli, senza innovazioni sonore, senza perdere un grammo di dignità, senza bisogno di dimostrare niente a nessuno. Dylan cementa la propria statua (e questa non la abbatte neanche Gesù bambino in persona).

Forse qualcuno si aspettava una (o più) nuove Hurricane che provassero ad abbattere Trump, per esempio.

Invece Dylan parla di Indiana Jones e di Anna Frank nello stesso verso, di Kennedy, di Pacino e Brando, di Bowie, dei poeti della Beat generation. Insomma non tocca più a lui l’attacco frontale, benché non abbia risparmiato giudizi sferzanti nelle interviste.

Spetta a lui la riflessione ponderata e lo sguardo che abbraccia il tempo, anche con una certa dose di compassione. Perfino per se stessi. Chissà se sarà possibile rivederlo dal vivo, il vecchio Bob. Perfino il suo Neverending tour si è dovuto prendere una pausa, per colpa del virus.

Sarebbe molto bello vedere di nuovo sul palco quella specie di ghigno insofferente sotto il cappello, e sentire quella voce pura e inimitabile, che si impegna a rendere irriconoscibile uno dei vecchi classici, o che regala tinte poetiche e definitive a queste nuove canzoni.