Forti dei consensi suscitati con l’ultimo album Umani, vento e piante (che abbiamo recensito qui) il trio pisano Campos arriva all’Ohibò di Milano per una serata ricca di rock alternativo e buone sensazioni.
Simone Bettin (chitarra, voce), Davide Barbafiera (elettronica) e Tommaso Tanzini (basso) riempiono agevolmente il locale milanese, di un pubblico che mostra spesso una certa confidenza con i brani della band.
Si parte da Passaggio, che ha caratteristiche psichedeliche senza voler affondare troppo il coltello. Molto riverbero in Take me home, anche per “colpa” delle ridotte dimensioni del circolo. Ma la canzone decolla in fretta, grazie a ritmiche quasi selvagge e a un crescendo molto robusto.
Qualcosa cambierà, il singolo, arriva morbido e sincopato a rendere più rotonda la serata. Ecco poi Cargo (dal primo disco, quando cantavano in inglese) che ha sapori blues e un drumming (elettronico) marcato e sottolineato adeguatamente dal basso elettrico.
La chitarra acustica verde acqua (o azzurro acqua, con le luci non si capisce) Bettin dà i tempi a You Keep, altro brano nervoso e in inglese, con la drum machine a rimbalzare forte sullo sfondo.
Alcuni meccanismi autistici della band trovano pieno compimento in Bughialenta, la più cupa e oscura fin qui, che ci fa tornare all’ultimo disco e all’italiano per il testo.
Colibrì è presentata con un “questa è difficile”. In realtà sono le parti melodiche della band a emergere, forse perché in questo caso si nascondono un po’ di meno.
Freezing invece si merita la presentazione, da parte di Barbafiera: “Questa è la nostra Whiter shade of pale, per cui battimani, accendini, cose”. Acustica e distorta, non ha proprio l’aspetto della ballad classica, al limite fa due passi verso il desert rock.
Si continua con un po’ di cinema fra un brano e l’altro e si apprende così che Schiena è “la più impegnativa” e parte da un rumore sordo e continuo, per poi lasciar crescere battiti e vibrazioni. Canzone rossa di sangue, come sottolineato dal testo e anche dalle luci di scena, con il dolore crescente che la voce trasmette.
La notte cerca un punto di incontro tra le idee elettroniche e un mood anni Novanta un po’ drum’n’bass, fino a un finale tra dance e il tribale.
A proposito di tribalismi, le ritmiche di Madre ritornano nella foresta, alla ricerca di contrasti che possono far pensare a band internazionali come gli Elbow.
Si va poi su S. (con adeguata introduzione sul fatto che sia l’ultima, ma per finta). Presentato come “il pezzo romantico di Simone”, in realtà non rinuncia ad azzannare qui e là.
I bis partono praticamente senza pausa: I didn’t stop offre le proprie idee irregolari e i propri spigoli, poi ribadite da due cover nel finale, Stooges compresi. Il trio esce poi (più o meno) a passo di waltzer, quando parte la musica di sottofondo che annuncia la fine della serata.
Convincenti per la sostanza, qualche limatura necessaria per la forma, sarebbe interessante ascoltare i Campos in un contesto più “aperto” e soprattutto con un set un po’ più lungo (questo a stento ha superato l’ora). Ma che ci sia talento, qualità di scrittura, inventiva e anche un po’ del giusto savoir faire risulta già più che evidente a questo livello di sviluppo della band.
Testo e foto di Fabio Alcini