Cesare Basile torna con un nuovo album di studio, a un trentennio esatto di distanza dal suo esordio da solista e a un lustro dal precedente Cummeddia. Lo fa con il suo album più scuro e sperimentale di sempre, Saracena, in uscita oggi 3 maggio 2024 per Viceversa Records, in vinile e digitale, con distribuzione Audioglobe.

«Puoi scrivere solamente la storia della tua ferita, puoi scrivere solamente la storia del tuo esilio», annotava il poeta palestinese Mahmoud Darwish, tra le principali fonti di ispirazione di Saracena.

È lo stesso Basile a introdurci al suo dodicesimo album:

Saracena è canzone d’esilio e spartenza. Canzone di separazione dall’infanzia, dai luoghi, dalla lingua. Canzone di pietre e nomi nascosti, terra calpestata dalle armate degli invasori, case abbandonate, rabbia che esplode il cuore e la carne. Una lunga canzone scritta e registrata di getto nell’arco di due settimane masticando le parole del poeta palestinese Mahmoud Darwish, quelle degli arabi di Sicilia condannati alla nostalgia come Abd al-Jabbar Ibn Hamdis, i versi di Santo Calì, le strofe popolari dell’abbandono di un’isola saracena negli intervalli delle melodie dei suoi Cantaturi. Questi semi pestati insieme nel mortaio della Nakba per raccontare il dolore degli ulivi di Palestina

Cesare Basile traccia per traccia

Si parte dalle risonanze ondeggianti di C’è Na Casa Rutta a Notu, che dopo un incipit suggestivo ma anche inquieto accoglie il cantato antico e profondo di Basile.

Kafr Qasim, con riferimento all’omonima città arabo-israeliana nei pressi di Tel Aviv, teatro di un massacro nel 1956, è uno strumentale con voci lontane, giusto per focalizzarsi anche in un altro lato del Mediterraneo.

I fiori del cotogno, Ciuri i Cutugnu, presiedono a un brano che mescola elettronica glitch e un cantare antico e tradizionale. Ci sono discorsi sintetici anche in Prisenti Assenti, che ruota sul giro di strumenti a corda antichi (ammetto di non saper riconoscere al volo rebab, baglama e tanpura, ma ce ne faremo una ragione). Un manto oscuro ricopre il brano, ricco di fantasmi e di minacce.

Breve intermezzo con Bbacilicò, per poi incontrare i battiti di Caliti Ciatu, altro incontro tra moderno e antico, con un controcanto femminile in inglese che si espande nell’etere, mentre l’Oriente prende possesso delle sonorità del brano.

Il brano più lungo di un disco in realtà breve è U Iornu Du Signuri, crepitante all’inizio, poi popolato di cornamuse e comunque di un senso del sacro molto pervasivo, accentuato dal cantato, che ha un sentimento spirituale profondo e risonanze maghrebine.

A chiudere ecco le danze tristi di Cappeddu a Mari, che partono piano e si allargano progressivamente, coinvolgendo persone, piazze, popoli.

Trattare della questione palestinese, oggi come cinquant’anni fa, potrebbe prevedere moltissime modalità diverse che spaziano dalla cronaca alla storiografia alla polemica politica alla testimonianza. E’ chiaro che se si è poeti si sceglie per natura la poesia, ed è quello che qui ha fatto Cesare Basile.

La scelta però risulta curiosa e originale per le modalità: Basile non parla dei morti di Gaza, della barbarie a cui assistiamo quotidianamente, di Netanyahu o di Hamas. Eppure lo fa, seppur filtrando tutto con la lingua di casa sua, con le parole di poeti arabi, con riferimenti mediterranei che vorrebbero essere universali.

E lo fa mescolando tutto, moderno e antico, sintetico e acustico, religioso e laico, perché è questo che rappresenta il Mediterraneo: una terra Saracena (ma anche normanna, greca, ebrea, bizantina, romana, celta, slava, zingara eccetera) dove gli uomini hanno imparato a mescolarsi. Con risultati apprezzabili, tra l’altro, quando hanno scelto l’arte e non la guerra.

Genere musicale: cantautore

Se ti piace Cesare Basile ascolta anche: Carmelo Pipitone

Pagina Instagram Cesare Basile

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