Che cosa ci racconta della musica, del giornalismo e di noi l’ “assorbimento” di Pitchfork #sottotraccia

Nel 2015 Condé Nast, una delle maggiori case editrici del mondo, comprò Pitchfork, testata americana di riferimento per il mondo musicale, soprattutto alternativo, ma non solo. Parlano di Taylor Swift ma anche dei gruppi underground più oscuri, sono assurti alle cronache nostrane soprattutto per una stroncatura dei Måneskin, ma soprattutto hanno una caratteristica molto interessante: sono rimasti tra i pochi a fare recensioni di dischi.

È notizia di queste ore che per Pitchfork la situazione sembra essere sempre meno rosea: gira una mail scritta ai dipendenti da Anna Wintour, direttrice di Vogue, superboss di Condé Nast (nonché ispiratrice della Mirande Priestly interpretata da Meryl Streep ne Il diavolo veste Prada) che annuncia che la testata sarà “assorbita” dal mensile maschile GQ, con contorno di tagli al personale, piuttosto ovvi in questi casi.

Non è chiaro come si celebrerà questo “assorbimento”, almeno non ancora. Di sicuro le attività della testata, che è stata fra le prime a investire sull’online, saranno ridimensionate, e forse sottoposte anche alle esigenze commerciali di una testata generalista maschile che per sua natura può essere molto meno “avventurosa” rispetto a un giornale online dallo spirito piuttosto free. Insomma, rischia che la prossima recensione i Måneskin rimedino anche un 7 o un 8.

A parte le battute, il problema esiste: c’è ancora spazio per il giornalismo musicale in questo mondo dominato dal mordi e fuggi, dall’ascolto compulsivo di quello che è nuovo e fresco, ma anche dall’oblio rapidissimo di canzoni e artisti? Vale ancora la pena approfondire, quando il massimo della profondità che ci si concede quotidianamente equivale a leggere i primi quattro commenti sotto un post che ti ha fatto incazzare (e di cui hai letto soltanto il titolo, vittima dell’ennesimo clickbaiting)?

Ora: non ho nessuna intenzione di lanciarmi in una tirata su come fossero belli i vecchi tempi in cui tutti leggevano e approfondivano e maledizione a questi giovinastri superficiali. Anche perché non è mai stato così: gente che legge e approfondisce, gente che non legge e si comporta in modo superficiale ce n’è sempre stata e sempre ce ne sarà. Anzi, personalmente oscillo fra questi due comportamenti, a volte nell’arco della stessa mezz’ora.

Sono soltanto cambiate le modalità di fruizione della realtà e delle sue molteplici interpretazioni. È vero che un tempo si leggevano di più giornali e libri. E grazie: era anche l’unico modo in cui si potevano assorbire informazioni, almeno prima del dilagare della tv. Ma demonizzare i social è come dire che lo smartphone è stronzo perché la gente lo usa per fare truffe.

Critici musicali per se stessi

La domanda vera è: servono ancora le recensioni dei dischi? Non è superato proprio il concetto di critica, quando ognuno può essere il critico musicale per se stesso, limitandosi ad ascoltare quello che l’algoritmo gli propone e scegliendo in base ai propri, legittimi, gusti?

La risposta (la mia, almeno) è che oggi le recensioni servono ancora di più di quanto non servissero dieci anni fa. Perché sono talmente tante le uscite, giorno per giorno, che affogare è un attimo. E perdersi dischi o canzoni che invece varrebbe la pena di ascoltare, finendo invece vittima del troppo già sentito, è un rischio al quale possiamo soccombere, impoverendoci sempre di più.

Qui a TRAKS, da ormai una decina d’anni, scriviamo recensioni quasi ogni giorno. Abbiamo scelto la via dell’equilibrio: non stronchiamo mai e se un disco non ci piace per niente, non lo prendiamo in considerazione. La stroncatura fine a se stessa è un giochino infantile che gasa tantissimo chi la scrive, fa fare un sorrisino compiaciuto a chi la legge, ma è utile quanto una pugnetta. Ti fa sfogare quei cinque minuti, ma rimani con le stesse frustrazioni di prima.

Ci piace di più raccontare quello che troverai in un disco, e lasciarti decidere autonomamente se diventerà il tuo disco preferito, oppure se non vorrai perdere del tempo. E’ vero che è l’epoca del superpersonalismo da parte dei giornalisti che devono mettere tutto di sé nelle cose che scrivono. Proprio per questo noi facciamo spesso due passi indietro, evitiamo i protagonismi eccessivi, appoggiamo due righe di giudizio personale ma per il resto preferiamo descrivere. Giusto? Sbagliato? A te la scelta. Noi facciamo così e continueremo a fare così.

E’ molto triste che Pitchfork si avvii verso un ridimensionamento e forse una chiusura, così come è triste che tante altre voci si siano spente nel corso degli anni, restringendo gli spazi per le opinioni libere. Ma da qui a leggerne una definitiva morte del giornalismo musicale (o del giornalismo tout court), ce ne corre. Anzi: l’esigenza di voci libere è sempre maggiore, e speriamo se ne ascoltino sempre di nuove, a prescindere dalla modalità che adotteranno.