Colbhi: dialoghi sonori a ruota libera

Colbhi, progetto collettivo nato dall’incontro di Stefano Bolchi con Osvaldo Loi, Federico Fantuz e l’autrice genovese Daniela Bianchi, ci porta alla scoperta di Gigantografia di piccoli sospiri, un album dalle sonorità trasversali. Ecco cosa ci hanno raccontato.

Iniziamo presentando Colbhi. Quando nasce il progetto collettivo e da chi è composto?

Il progetto è nato nel 2020 a partire da alcune sessioni di improvvisazione che ci sono state con alcuni miei fratelli musicanti, Osvaldo Loi e Federico Fantuz. Da queste ore di dialoghi sonori a ruota libera sono state raccolte delle parti che apparivano come delle bozze di brani. In seguito, sono comparsi i primi testi, alcuni scritti da Daniela Bianchi, altri da me (Stefano Bolchi), altri ancora scritti da entrambi, a quattro mani. Quando ci siamo resi conto di avere un po’ di canzoni è l’idea di farne un disco.

Ha un significato particolare il nome Colbhi?

Siamo stati parecchio tempo a cercare un nome al progetto. Progetto che è collettivo perché ha compreso la messa in gioco di diversi aspetti (dalla composizione della musica, dei testi, degli arrangiamenti) tra me, Osvaldo Loi, Daniela Bianchi, e Federico Fantuz nella prima fase compositiva. Ci sembrava interessante andare verso un nome che non significasse nulla di per sé, anche soltanto un suono. Mi venne in mente quando da ragazzini ci si prendeva in giro, richiamandoci con il nome storpiato dopo aver scambiato sillabe o lettere: a me chiamavano Colbhi.

Quale messaggio volete trasmettere e qual è stata la molla che vi ha spinto a produrre il nuovo progetto discografico intitolato Gigantografia di piccoli sospiri?

La molla è sempre la tensione nell’indirizzare un messaggio all’altro. Nel caso di un album di pubblicarlo. La scintilla è nata quando ci siamo resi conto di avere tra le mani dei brani con una certa forma.

Abbiamo scelto alcuni dei nostri sospiri, che sono emozioni a basso volume nella quotidianità, di solito lasciate evaporare, alle quali non si dà spazio, talvolta neanche una forma. La nostra è una sorta di operazione inversa: le abbiamo raccolte, condivise ed amplificate con il suono e le parole

Qual è la canzone all’interno dell’album che vi sta più a cuore?

Forse a questa domanda riuscirò a rispondere tra qualche anno quando ci sarà una maggiore distanza. Le canzoni di un album appena uscito sono un po’ come dei figli: non ce n’è uno a cui si vuole più bene, sono solo diversi.

Se invece c’è un brano che per me testimonia meglio il senso del progetto collettivo Colbhi è Anidride carbonica: è stato un po’ il luogo d’incontro delle nostre diversità in tutta la produzione, dal testo alla bozza di chitarra iniziale, dall’arrangiamento alle ritmiche elettroniche. Dove si è fermato l’intervento di uno è iniziato il lavoro dell’altro.

Personalmente ho provato quello che si sente di fronte alla diversità: un senso di disorientamento e poi meraviglia e stupore Tutto è partito da un’improvvisazione libera innescata da un giro di chitarra di Fantuz, l’impronta dell’arrangiamento in particolare di Osvaldo, ed il testo scritto da Daniela al quale si è unita la musica.

In radio c’è Dark ballad il nuovo singolo con il featuring di Paolo Benvegnù. Qual è il significato del brano?

Dark ballad è nata durante una sessione di improvvisazione tra me (Stefano Bolchi), Federico Fantuz alla chitarra e Osvaldo Loi al pianoforte. È stata inizialmente prodotta come un brano strumentale.  L’atmosfera ci evocava un immaginario proveniente da un luogo lontano, un sound anglosassone cupo.

Non abbiamo scartato però di immaginarcela canzone, a quel punto però in lingua inglese. Per il testo il mio pensiero fu istintivamente rimandato a qualcosa scritto da William Blake poeta visionario e incisore nato nella metà del 1700.  In particolare, ai Proverbi dell’inferno (contenuti ne Il matrimonio del cielo e dell’Inferno) una serie di aforismi in cui emerge una lettura irragionevole e immorale del rapporto tra la natura e la cultura umana.

Come è nata la collaborazione con Paolo Benvegnù?

Dark ballad poteva essere una colonna sonora. Ma nell’immaginarcela canzone ci abbiamo sentito dentro una voce profonda e mistica… ed è risultato spontaneo sia a me che a Fantuz fare il nome di Paolo Benvegnù. Ne parlammo poco dopo con l’amico produttore e musicista Marco Olivotto che si rivelò un efficace connettore astrale: ebbe il modo di fare ascoltare il brano a Paolo, che lo trovò vicino alle sue corde. Fu un emozionante sorpresa ricevere, qualche mese dopo, le tracce di voce di Paolo che circondavano la mia nel cantare il testo di Blake. Aveva dato al brano una veste nobile e mistica.

Cosa potete dirci del videoclip di Dark Ballad che evoca un viaggio onirico dai toni in bianco e nero?

Mi sono occupato personalmente delle riprese e del montaggio del video. Nell’arco di un mese ho seguito un filo che mi tirava verso la ripresa di immagini in bianco e nero (che trovavo aderenti all’atmosfera del sound) e che evocassero delle suggestioni piuttosto che una storia dai tratti narrativi. Sulle alture sopra il mare di Genova ho incontrato un piccolo branco di cavalli che vive allo stato brado. Possenti e fragili, sembrava si lasciassero cullare dal vento ed ascoltare il suo messaggio. Pascolavano in silenzio sotto la cima della collina circondati da dita di antenne allungate fino al cielo. In quell’immagine ho trovato la suggestione che tocca il rapporto misterioso e stridente tra natura e cultura: l’una accanto all’altra, ma distanti per linguaggio. 

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