Depeche Mode: “Memento Mori” e il senso della vita #Sottotraccia
E’ uscito venerdì scorso Memento Mori, il nuovo album dei Depeche Mode, cioè di una delle band che maggiormente hanno influenzato quello che ci piace chiamare pop (e che forse è molto più di così) negli ultimi trent’anni e oltre. Ci è sembrato giusto dedicare all’album questo #sottotraccia, anche in grazia dell’impronta che la band ha lasciato anche su tantissima musica italiana.
Memento Mori è il quindicesimo disco in studio della band e il primo che vede Gahan e Gore da soli, dopo la scomparsa di Andy “Fletch” Fletcher. Il booklet dell’album contiene la dedica “ANDREW JOHN FLETCHER 1961-2022. ‘in our HEARTS and MINDS’. dave & martin”.
Prodotto da James Ford, e con la produzione aggiunta da Marta Salogni, Memento Mori è nato durante le prime fasi della pandemia da Covid-19, per cui alcune tematiche trattate al suo interno sono state direttamente ispirate da quel periodo.
Come ha dichiarato Dave Gahan a NME:
Ricordati che devi morire è un esortazione a trarre il massimo dalla vita e sfruttare al massimo ogni giorno
Mentre Martin Gore ha detto a Mojo:
Non bisogna associare il titolo a qualcosa di deprimente, riguarda più l’idea di godersi la vita
Depeche Mode traccia per traccia
Trascinamenti, frizioni e rumori assortiti fanno partire il disco con qualche contorno industrial in My Cosmos is Mine. La voce di Gahan oppone il classico contrasto con la propria eleganza malinconica e un po’ distante. Lo spartito cambia quando entra il coro e muta almeno parzialmente il panorama, con una lieve nota di dramma.
Piccole quote di ritmo si rilevano in Wagging Tongue, che parla di angeli che muoiono, ma lo fa avvolgendo l’ascoltatore in sonorità elettroniche ma tutto sommato calde. La terza posizione dell’album è riservata a Ghosts Again, già ben nota e che si è conquistata un consistente air play grazie a un giro “facile” e a una certa immediatezza, nonché a un video bergmaniano piuttosto potente. L’anima pop della band è sempre ineludibile e ai due sopravvissuti sembra sempre che le hit scappino di mano in maniera del tutto spontanea, anche se difficilmente funziona così.
Si passa a una ballad molto notturna e rallentata come Don’t Say You Love Me, una negazione celebrata in grande stile, con attenzione alla melodia, archi e un andamento oscillante.
Beat decisamente incisivo quello di My Favourite Stranger, che si fa acida e, se non riporta ai primordi (come potrebbe?) fa comunque riferimento ad arsenali sonori appartenenti alle prime fasi della band. Qui è tutto un po’ più moderato, ma il graffio si avverte comunque.
A proposito di sensazioni che arrivano dal passato, ecco una morbidissima Soul with me, che spalanca dolcemente le ali, rimanendo credibile come negli episodi più soft della band inglese.
Bisogna stabilire la natura metaforica della scimmia di Caroline in Caroline’s Monkey, ritratto in chiaroscuro con qualche tratto vibrante e con qualche leggero cambio di marcia. Le dipendenze, il tempo che passa, i pericoli e la resa trovano posto nel testo di un brano meno lineare di quanto possa sembrare.
C’è un senso di pericolo imminente in Before We Drown, ancora alle prese con le cadute: “First we stand up, then we fall down”. L’ambiente elettropop è sostanzialmente quello che si è modellato attorno alle loro scelte sonore, lungo il corso degli anni, con ritmi abbastanza lenti, sentimenti malinconici, il sempre apprezzabile gioco a due voci che ormai padroneggiano come nessuno.
People are people ci dicevano qualche anno fa. Oggi si scopre che People are good, anche se il testo del brano sembra più un autoconvincimento, non privo di qualche dose di sarcasmo. Echi vocali e un andamento molto insistito fanno di questo brano uno dei più inquieti del disco.
Più placata ma non meno malinconica Always You, che proclama il proprio amore in mezzo a ritmi prima tranquilli e poi improvvisamente complicati da piani sovrapposti e panorami cangianti.
Never let me go, a parte echeggiare in parte del titolo un altro ben noto successo del passato, si compone di un riff molto intenso e quasi stridente, controbilanciato con armonia da altre aspirazioni più morbide, ma nel complesso ne risulta un pezzo abrasivo, che resiste con rabbia all’abbandono (altrui).
In parte preghiera, in parte esortazione, a chiudere il disco ci pensa Speak to me, accorata e vibrante chiusura che gira sul piatto in modo composto e ascende con calma ad altezze evidentemente ultraterrene. Certo poi qualche glitch elettronico prova a guastare l’ascesa, ma senza rovinare una complessiva idea che si fa climax finale, etereo e definitivo.
Benedizioni e maledizioni
Quando sei una band come i Depeche Mode, anzi quando sei i Depeche Mode, hai un paio di benedizioni di partenza e un paio di maledizioni.
Da una parte hai già fatto così tanto che nessuno ti chiede più niente. E in più, hai sostanzialmente costruito un ambiente di concetti di riferimento che appartengono soltanto alla tua band, con uno stile così riconoscibile e una ricchezza di contenuti e di storia che non hanno bisogno di cercare appigli all’esterno.
In grazia di questo però arrivano anche le maledizioni: da una parte sai perfettamente che è davvero difficile che supererai i capolavori precedenti (ma oggettivamente chi si può mettere a giocare per superare Music for the Masses o Violator?). E dall’altra parte sai anche però che l’asticella è posta così in alto che tutti si aspettano che tu salti ancora più in alto. O che tu cada, puntando il dito e dicendo che non sei più quello di una volta.
Si aggiunga all’assunto la pandemia e la scomparsa di Fletcher, che conferisce al tutto un’aura funebre ancora più accentuata. Insomma anche se sei i Depeche Mode potresti non avere la vita facilissima.
La soluzione è probabilmente adottare l’approccio che l’ormai duo ha accettato per questo disco: costruire canzoni come soltanto loro sono in grado di fare (è sempre Construction time again), con una sensibilità pop ineguagliabile e anche con un pizzico di spirito d’avventura elettronica, che scivola via senza fare troppo male ma che completa bene il discorso.
E no, non è questo il capolavoro che li renderà memorabili. Ma Memento Mori rimane tra i numerosi lavori che hanno costruito uno stile e che dimostrano che si può invecchiare con grazia e senza svendersi anche nel mondo dell’arte, perfino nell’universo del pop.