Emma Nolde @ Pem! Festival: intervista e report
Che siano molto benedette le iniziative tipo Pem! Festival, benemerita manifestazione in corso da diciotto anni in un solitamente non animatissimo Monferrato, soprattutto dal punto di vista della musica pop, emergente, indipendente, dirompente, insomma quella di cui trattiamo abitualmente su TRAKS.
La rassegna, che si allunga e allarga sempre di più nel corso degli anni, ha tanti meriti di per sé, vista la formula che permette al direttore artistico Enrico Deregibus di mettere sul palco, intervistare e far esibire tantissimi ottimi nomi della nostra musica. E ha anche un merito collaterale per noi fondamentale: ci permette spesso di intervistare in un’atmosfera del tutto informale e fuori dalla scatoletta da un quarto d’ora solitamente concessa, quegli stessi personaggi, che altrimenti sarebbero spesso più difficili da raggiungere, e da raggiungere in questo modo.
Nella fattispecie ieri, 6 settembre 2023, ha permesso a me di farmi riprendere con una certa severità da Emma Nolde perché non so distinguere il gusto della Coca Cola originale da quello della Coca Zero (viene fuori che è una specie di sommelier della bevanda con le bollicine), poco dopo avermi elogiato perché non è da tutti i giorni trovare una persona adulta come me che ne apprezzi la fragranza. Esatto, mi ha dato del vecchio, ma in modo gentilissimo.
Alta e magrissima, con scarpe comode e calzini bianchi ai piedi, Emma ha guidato da Empoli a Mirabello Monferrato per esibirsi al Pem! in una serata prima calda e poi freschina, in un clima un po’ sconcertante anche per le zanzare, ma che le ha permesso di mettere in mostra il suo talento clamoroso di fronte a un pubblico attento e partecipe.
E se mentre canta e si esibisce può far trasparire una certa tensione, quando parla appare rilassata, tranquilla, curiosa e spiritosa, forse anche perché è in una fase particolarmente positiva dal punto di vista creativo, come ci spiegherà durante l’intervista.
Emma Nolde: canzoni con vertigine
Sono passati due anni tra “Toccaterra” e “Dormi”, due anni peraltro non banali visto che si parla del periodo dal 2020 al 2022. Che cos’è cambiato nel tuo mondo, soprattutto a livello musicale?
Ho un ricordo del periodo di Toccaterra che è simile a quando nei film c’è l’acufene dopo l’esplosione di una bomba, con questa sensazione di stordimento… Per me assomigliava molto a quello. Erano le prime volte che capivo delle cose di me, sentivo delle cose che non avevo mai sentito. Erano cose abbastanza forti. Non so se avevo bene consapevolezza o meno di quello che stavo facendo. Ma era un momento in cui non potevo fare altro che gestire questa sensazione di stordimento.
Il fatto di aver scritto canzoni adesso mi fa pensare che avessi chiaro come stavo, ma non so se effettivamente fosse così o meno. Per Dormi ho un ricordo più nitido, perché per forza di cose ero in questa situazione che ci ha riguardato tutti: ero a casa, ero da sola. Avevo tanta voglia di fare delle cose che invece non potevo fare prima ma non perché qualcuno mi dicesse di stare a casa ma magari mi mancava il coraggio di farle.
E invece il coraggio l’avevo trovato ma mancava l’effettiva opportunità. Quindi dico spesso che con Toccaterra parlavo di quello che non potevo dire e in Dormi di quello che non potevo fare. La differenza secondo me sta in quello, oltre che in tutta la ricerca sonora.
Il risultato di due privazioni… Noi giornalisti abusiamo sempre di espressioni tipo “urgenza creativa”. Ma nel tuo caso mi sembra proprio che ci sia un’urgenza, quasi un’ansia di comunicare e di fare uscire quello che senti. La vivi così?
Sì, per me ha senso scrivere canzoni solo se dici qualcosa di cui un po’ ti vergogni e che ti fa venire un po’ le vertigini. A volte me ne scordo e finisco una canzone e non sento quella sensazione lì e mi sembra che non abbia senso di esistere la canzone in sé. Poi magari mi viene di usare quella parola che è molto più precisa e molto più fastidiosa per la persona a cui mi riferisco o per la cosa di cui parlo e poi è proprio lì che sento che quella cosa ha senso.
Comunque, se l’urgenza non ce l’ho, cerco di non scrivere o quantomeno di non far sentire quello che ho scritto. Se so che è una cosa urgente allora vale la pena di farla ascoltare, se no no.
Un criterio di preselezione
Sì: sono usciti due dischi ma ormai sono tre anni che suono le dieci canzoni di Toccaterra: se non ti convincono, se quella vertigine lì non la senti all’inizio, di sicuro non la sentirai mai. Sai la sensazione che hai quando devi prendere la mano a qualcuno a cui non l’hai mai presa? Se la senti lì poi non la sentirai qualche anno dopo. Però all’inizio è giusto sentirla.
Prima, nel raccontare dell’urgenza che riguarda una canzone, hai parlato di “parola precisa nei riguardi di una persona a cui mi riferisco”. Ti viene molto naturale parlare di persone che conosci?
Noto che in Toccaterra partivo molto da “io che” ho qualcosa, non ho qualcosa eccetera. Dormi è più “tu” in generale e mi sto accorgendo che le canzoni che sto scrivendo in questo momento sono sì il “tu” ma sono molto “noi” e parto da un punto di vista diverso: di mia mamma, di un mio amico che ha una visione del mondo molto precisa e che a volte condivido e a volte no. Mi sporco un po’ di più le mani degli altri.
Mi viene molto spontaneo parlare degli altri. Mi viene meno spontaneo parlare di cose di cui ho paura a parlare perché non mi sento nella posizione di farlo, come i temi sociali. Mi sto chiedendo spesso se è per paura, perché un’idea ovviamente ce l’ho.
E’ qualcosa che voglio provare a fare, pur non venendomi spontanea. Mi ricordo dal liceo che Nietzsche dice che la stanza dei ricordi della nostra testa è come se fosse già completamente piena e il fatto che noi conosciamo una precisa cosa è una luce che si accende su qualcosa che in realtà c’era.
Magari l’urgenza ora su queste cose non ce l’ho, però per farle mie un po’ di prove vanno fatte, qualche luce va accesa.
Credo che il brano più toccante del disco sia quello che hai dedicato a tua sorella, Te ne sei andata per ballare. Ti va di raccontare qualcosa della genesi di questo brano?
Tieni conto che il ritornello del brano com’è ora non esisteva o non era così. Era diventata una canzone molto nervosa, veniva un po’ più fuori la rabbia. Che poi se la vuoi leggere c’è, ma è una rabbia “bella”, perché volevo esserci anch’io. Però c’era anche a livello musicale. E questa cosa, combaciata con l’amore che posso sentire per lei non mi tornava, non sentivo la scintilla.
Nel lavorare con Francesco (Motta, che ha prodotto il disco, Ndr), si diceva: ma perché si arriva fino a quel punto e poi prende una piega che disorienta? Mi chiedeva di cosa volessi parlare. E io gli dicevo che semplicemente a tredici anni Marta è andata via per ballare e io sono rimasta a casa. E lui: devi dire esattamente questa cosa qua.
E in effetti quando l’ha detto ho notato che quando parlo di Marta mi viene sempre da dire questa frase, e mi ha fatto ridere quanto quel momento si fosse ripetuto lungo la mia vita ma io non ci avessi mai fatto caso. Francesco è uno che le canzoni le sa scrivere e che ci fa caso alle cose e mi ha detto esattamente questo. E’ anche una canzone che ha avuto un processo creativo particolare e forse anche per questo sono legata alla canzone.
Mi ha legato molto anche a Francesco: per quanto siano frasi che ho detto io, mi sembra di averla scritta insieme a lui.
Già che ci siamo, raccontami qualcosa del tuo rapporto con Motta
Francesco è una persona estremamente generosa e quando decide di aprirsi lo fa senza lasciare niente fuori. Ha deciso di aprirsi con me e io ho passato dei mesi non soltanto a capire cose che non avevo capito, tramite lui, dello scrivere canzoni, ma anche vivendo con lui e i suoi amici, nelle sue strade.
Di base abbiamo stretto un rapporto molto forte. Poi essendo una persona che dà tutto, si è formata questa cosa di protezione da parte sua, anche nei confronti dei discografici. Sia quando c’è stato bisogno di dire: “No questa canzone si fa lentissima”, che sono cose che sembrano buffe ma che al momento sembrano delle vere e proprie lotte. Sia per dirmi: “Vieni con noi stasera”. Io a Roma ho un paio di amici però lui ci vive da dieci anni ed è proprio inglobato nella sua quotidianità.
Gli devo tanto anche a livello di esperienza umana, perché sono stati tre mesi intensi. Poi mi ha passato tanto anche a livello di spontaneità: è uno che parla e mentre parla, scrive. C’è una ragazza che si chiama Phoebe Bridgers che a me piace tantissimo e dice: “Proprio le cose che dici per scherzo le dovresti scrivere”. E Francesco fa esattamente così. Mi ha insegnato che è possibile scrivere senza tanti giri di parole.
Quindi se c’è una cosa che vorresti “rubargli” è questa
Esattamente, questo canale drittissimo che c’è tra la testa e la bocca.
L’odore delle canzoni
Ho letto un’intervista in cui hai detto che il filo rosso che lega le canzoni del disco è l’ineluttabilità. Che, fattelo dire, è una sensazione che di solito arriva qualche anno più in là dei tuoi 23 anni. Mi spieghi meglio il concetto?
Il fatto di averci pensato così a fondo è partito dallo stare fermi, che un po’ ti fa pensare di più. Non mi manca quel periodo lì, direi un’eresia. Però mi manca il tempo vuoto, perché quel tempo vuoto lì, quel sentirsi appeso a niente ti fa sentire quella sensazione di vertigine, uso ancora questa parola.
Sono una persona che prospettivizza molto, e mi piace anche. Mi vedo piccolissima, da tutti i punti di vista, ma quando si tratta delle persone a cui voglio bene e da cui mi sento amata mi piace sentirmi importante. Però appena cambio punto di vista so di non esserlo.
Da una parte è una cosa che mi fa stare male, l’ineluttabile. Dall’altra penso che sia inevitabile e bisogna farci pace. Poco fa è stata la notte di san Lorenzo: bastano dieci secondi per capire quanto siamo piccoli e quanto tutto non è sotto il nostro controllo. Che poi rischia di passare sotto il punto di vista per cui tanto non puoi controllare niente, non fare niente.
No: qualcosa puoi controllarlo. Però per come sono fatta io, controllo talmente tanto che quel poco che posso lasciare andare è giusto che lasci andare, se no stai male per qualcosa che non dipende da te.
Qual è il brano che sei più contenta di eseguire dal vivo?
Cambiano continuamente. L’estate scorsa Respiro, in questo momento qua Non so chi sei e Storia di un bacio. Non so chi sei per me è l’unica canzone che ho scritto che ha un odore preciso. E’ assurdo ma mi sa proprio di una cosa precisissima. Di solito le cose sono più sparpagliate, invece quella no. Mi sembra più facile che “passi”, la sento una canzone liscia, va da sola.
Hai collaborato anche con gli Zen Circus: com’è andata in quell’occasione?
Sono andata in studio da Andrea (Appino, Ndr). Non mi aveva detto niente, poi m’ha detto: questo pezzo se ti piace si potrebbe fare insieme. Poi mi ha mandato il bounce, ho scritto la strofa, l’abbiamo registrata, poi sono andata a casa di Ufo che ha questa libreria incredibile con un giradischi e abbiamo attaccato il telefono. L’ha voluta ascoltare seicento volte. E’ stata in generale una giornata particolare. Karim non penso ci fosse, c’eravamo io, Ufo e Appino. Mi è piaciuto vedere come fanno musica loro.
Appino ha un modo di scrivere diverso da Francesco secondo me. E’ più simile a me, è molto più cerebrale. Lui anche molto di più me: nel sociale, nei temi che tratta. Però è cerebrale nel modo di scrivere.
Quindi Motta più spontaneo e Appino più cerebrale
Secondo me sì, poi la spontaneità è già nell’atto creativo, che è mettere insieme due cose distantissime. E gli viene in mente il collegamento fra le cose. Che poi è quello che fanno gli scienziati. Io sono una fan totale di Roberto Mercadini, che in uno dei suoi libri dice che gli scienziati e i narratori proprio questo fanno, cioè collegare due cose molto lontane fra loro. Newton guardando una mela piccolissima ha finito per capire che la stessa forza bilanciava anche pianeti. Da una mela a un pianeta è un collegamento lontanissimo. Ma un narratore è proprio questo che fa: da un dettaglio arriva a spiegarti una metafora enorme.
Stai già lavorando su brani nuovi?
Sì sì, i brani nuovi ci sono e sono tanti in questo momento. Poi io ho un modo di scrivere che è simile a quello che stavo descrivendo per cui parto da un’idea che mi deve convincere, poi la sviluppo. Ci sono già diciotto-venti provini che so già più o meno come gestiremo, però sono molto felice di lavorare a questo disco, perché ho capito delle cose di me, soprattutto a livello musicale. Mi so spiegare ancora meglio e mi sento ancora più libera.
Stai lavorando ancora con Francesco?
No, stiamo lavorando insieme ma a un’altra cosa. Però lui ha fatto il suo disco, io il mio lo sto producendo con Andrea Pachetti che aveva lavorato con me nel primo disco. Io e lui ci capiamo talmente bene che mi sento tranquillissima nell’esprimere le mie idee e nel fare di testa mia.
Lui mi trattiene quando ce n’è bisogno, se no mi accompagna e io ho bisogno un po’ di questo. Se collabori con una personalità musicale così forte come Motta, un po’ lo devi convincere, ma se siete due forti che vanno in due direzioni diverse, anche se non è mai successo, ma magari su delle parole può succedere… Questo è anche l’accrescimento, però per questo disco qua ho le idee chiare e ho bisogno soltanto di realizzarle.
Poi ci sono altri membri della squadra, musicisti, chi mixa, quindi lo scambio esiste ma mi sento di avere le briglie in mano mia.
Tempistica?
Ho già in mente un’idea ma aspetto a dirlo.
Il concerto
Dopo la nostra intervista (e dopo aver mangiato soltanto un pezzo di un calzone farcito oggettivamente enorme, accompagnandolo con la Coca Cola che ha originato la schermaglia di cui si diceva), Emma armeggia un po’ con la chitarra sul prato del Country Club che ci ospita, si isola per ripassare le canzoni che eseguirà, poi si fa intervistare di fronte al pubblico da Deregibus.
Prima di sedersi a dire il vero fa in tempo a eseguire un paio di canzoni, Voci stonate da Dormi e Nero Ardesia da Toccaterra. Poi risponde a qualche domanda, anche proveniente dai finalisti del contest organizzato dal Pem! per valorizzare i talenti della provincia di Alessandria.
Dopo l’intervista imbraccia di nuovo la chitarra, che gestisce con l’abilità di un’eccellente strumentista e riparte da Storia di un bacio, che poco fa ci ha raccontato essere una delle canzoni che le piace di più eseguire dal vivo. Le canzoni ovviamente in questa veste sono scarne di suoni, ma in questa veste nuda si apprezza ancora di più la cruda verità dei pezzi, la loro intensità sferzante.
E’ il caso di Resta, altro episodio chiave di Toccaterra, che rincorre sensazioni e giri di chitarra, scuse e spiegazioni prima di raggiungere una verità assoluta: “Chi vuole resta”. Poi tocca a Dormi, title track del nuovo disco, che Emma annuncia come “una delle canzoni più up” della serata, in realtà senza esagerare.
Si continua con la chitarra in mano per Respiro, qui privata dei cori, ma non per questo di minore impatto, con quello spirito quasi tribale e sicuramente sensuale che Emma riesce a trasporre plasticamente anche qui. E come su disco, tocca poi a Non so chi sei, canzone dotata di “odore”, secondo quello che ci spiegava prima, con le sue dissonanze e tutto quello che si sa e non si sa.
Anche per Sfiorare si rimane con la chitarra, mentre il pianoforte prende il centro della scena con Un mazzo di chiavi, un ombrello, lì in mezzo, originariamente pubblicata come singolo in compagnia di Generic Animal: la cantautrice introduce il brano spiegando che nasce dalla sua consolidata abitudine di perdere qualsiasi cosa (chissà che cos’avrà lasciato a Mombello Monferrato ieri).
I bis sono La stessa parte della Luna e naturalmente Berlino, con il suo andamento rapsodico e le sue immagini fotografiche. Dopodiché c’è spazio soltanto per i complimenti, perché quando si incontra un talento di questo livello si applaude, ci si inchina, si ringrazia e ci si mette in auto felici per l’incontro.