Eugenio in Via di Gioia, “Tutti su per terra”: la recensione
Gli Eugenio in Via di Gioia sono quattro ragazzi, quattro giovani illuminati da una realtà a risparmio energetico. Il nome, un calembour formato dai nomi dei membri del gruppo (Eugenio Cesaro, Emanuele Via, Paolo Di Gioia, Lorenzo Federici), introduce subito nel mondo irriverente, colorato, a tratti un po’ patinato che i ragazzi torinesi hanno saputo creare, cominciandone a costruire le fondamenta nel 2014 con il loro primo album intitolato “Lorenzo Federici”, verosimilmente dedicandolo all’unico dei quattro artisti a essere escluso dal nome della band.
Dopo tre anni esce Tutti su per terra, un album dove i testi, i giochi di parole continui e i doppi sensi sono protagonisti assoluti, e dove al centro c’è la relazione tra l’uomo e il mondo, che dopo secoli di evoluzione si trova completamente stravolta, capovolta. I difetti del mondo, le sue contraddizioni, vengono cantate su base folk moderna, rendendo comico quel che non dovrebbe affatto far sorridere, rendendo meno tediosa la convivenza con questa presa di coscienza.
Eugenio in Via di Gioia traccia per traccia
La prima traccia è Giovani illuminati, brano corale che catapulta immediatamente nel mood di Tutti su per terra. Un arcipelago di isole separate ma comunicanti, questo sono i ragazzi di oggi, tremendamente soli, tremendamente condizionati e condizionabili dal quel gigantesco contenitore che è la realtà che ci circonda. La punta dell’iceberg è una riflessione sul disincanto di un futuro, non così lontano, in un mare diluito dove i ghiacciai si scioglieranno, in cui la natura si ribellerà. Le ricerche di mercato, la tecnologia riusciranno a salvare l’uomo da se stesso? Il sound è allegro, il cantato a tratti sfiora la risata, rendendo il pezzo ancora più surreale. Il ritornello si fa più convincente in Chiodo fisso, con chitarre e cori in equilibrio sul filo del pop, in un surreale immedesimarsi nella sensazione di essere chiodo dentro la ruota di una bicicletta, di essere uomini dentro la natura, di essere stati catapultati in un mondo senza averlo chiesto, e di doverci fare i conti.
Ogni giorno va indossata una camicia, una delle Sette camice settimanali, per andare al lavoro, per essere considerati sani, o quantomeno per non sembrare pazzi: perché se essere se stessi è onesto, ma essere sani è un lavoro, bisogna solo nascondersi dietro occhiali dalla lente scura e cercare di andare avanti nel modo più simile a ciò che si ha dentro possibile. La musica fa muovere la testa, a tratti viene quasi voglia ballare, e la sensazione è quella di voler andare a un live del gruppo per vedere l’effetto che farebbe.
Il Silenzio non è l’assenza di parole, ma il mettere muto tutto ciò che fa rumore nel nostro quotidiano, il silenzio imposto: la vecchietta che si lamenta, il cane che abbaia, gli studenti a lezione, le urla del pubblico durante un concerto. Fiati, percussioni, fischi, cori, pianoforte, non riescono a mitigare la malinconia intrinseca del pezzo, dove la privazione del suono è mancanza della possibilità di essere compresi, perché il rumore che hai rimane dentro, e ci rimarrà sempre.
Il Grillo parlante è il protagonista di Obiezione, la traccia che cerca di trovare la differenza tra morale e coscienza, se ne esiste realmente una. Fisarmoniche e ritmo incalzante, arrangiate in chiave folk moderno, contribuiscono a renderlo uno dei pezzi più convincenti. Si arriva così a Scivola, molto più scarna della precedente per quanto riguarda il mood, che abbandonano il folk per avvicinarsi a un sound retrò; ecco che subito ci si trova di nuovo ad affrontare un tema scomodo, come quello del bullismo, con Selezione naturale, che vede la collaborazione di Willie Peyote. Una traccia con una parte rap e di atmosfera oscura, dove frasi come per nascondere i propri difetti li esalti nelle altre persone, serve un capro espiatorio che dica le cose che pensi per risparmiarti, il modo migliore per eliminare tutti i teppisti è stato diventarlo serve a focalizzare l’attenzione su quanto il male possa essere banale, e su quanto banalmente ci lasciamo inghiottire da meccanismi che sarebbero facilmente disinnescabili se solo gli input esterni si potessero programmare.
La pace è scongiurare la fine lanciandola da un’altra parte: L’ultima traccia è la surreale e allegra La prima pace mondiale, dove il nemico, chiunque esso sia, se n’è andato, e ha lasciato quintali di polvere da sparo inesplosa, ha lasciato un’alleanza di comodo, ci ha lasciato a tifare gli eroi restando in disparte.
Tutti su per terra è una riflessione su temi impegnati e impegnativi, che se fossimo pazzi lasceremmo scorrere nelle nostre teste senza soffermarci troppo. Se è vero che, probabilmente, non troveremo mai una soluzione da soli, è anche vero che abbiamo gli strumenti più importanti di tutti, testa per pensare e voce per gridare. Il pessimismo è reale, ma si può, senza dubbio, rendere meno annichilente, e gli Eugenio in Via di Gioia contribuiscono a farlo credere possibile.
Chiara Orsetti