Infanti è il quarto lavoro da solista per Fabrizio Tavernelli. Tavernelli si è cimentato in un concept album sull’abuso dei bambini nelle odierne guerre digitali/mediatiche, un tema difficile da affrontare ma di stretta attualità.
Cantante, produttore, musicista, scrittore, attivo negli anni ’80 con En Manque D’Autre e dal ’93 al 1999 con gli Afa (Acid Folk Alleanza) con i quali incide diversi album tra crossover ed elettronica per Sugar di Caterina Caselli e Dischi del Mulo/CPI/Polygram. E’ ideatore nel 1995 dell’evento Materiale Resistente, rilettura moderna di canti della
Resistenza.
Dal 2000 presenta diversi progetti dal pop alla sperimentazione, dalla psichedelia all’elettronica, dalla italo-disco all’avanguardia: Groove Safari, Roots Connection, Duozero, Ajello, Babel, IRRS, Impresa Gottardo. Del 2011 è l’uscita del suo primo libro Provincia Exotica. Gli abbiamo rivolto qualche domanda.
Il tuo ultimo album “Infanti” è dedicato alle vittime innocenti delle guerre, anche mediatiche. Ci puoi spiegare come è nata l’idea e l’ispirazione del disco?
L’album è un concept incentrato sull’abuso dei bambini e dei loro corpi nelle odierne guerre mediatiche. Infante contiene il termine “fante” come se i bambini fossero stati arruolati e sbattuti in prima linea a combattere le nostre guerre. Guerre di potere, economiche, d’opinione.
Soltanto che dalle trincee dei conflitti mondiali scavate nella terra, ora si tratta di trincee digitali scavate nell’immaterialità dei social network. E’ come se gli uomini si stessero accanendo contro i propri figli, una sorta di cannibalismo verso la parte più indifesa e innocente, un mangiare se stessi.
Piccoli che muoiono sotto i bombardamenti “chirurgici”, piccoli che vengono ripresi, fotografati con le loro ferite e sbattuti oscenamenti sui nostri schermi. Questa è la vera pornografia. Bambini in gabbia, lasciati fuori da confini, a cui neghiamo l’approdo alla speranza, a un futuro, separati dal filo spinato, mentre intorno spuntano di nuovo i muri.
Bambini che lasciamo fuori dai nostri paradisi in cui luccicano gli oggetti di consumo, bambini che diventano il terreno minato che noi adulti lasciamo quando abbandoniamo le guerre tra noi. Bambini che ci vengono restituiti dal mare e che per qualcuno, nella costruzione scientifica delle fake news, diventano “bambolotti”. Il rischio è l’assuefazione. Sono violenze verso l’infanzia che si rivolteranno contro di noi.
Dal punto di vista musicale si sente forte la voglia di sperimentazione all’interno del disco. Quanto lavoro e quanto tempo sono stati necessari?
E’ un percorso che ho intrapreso con i miei album solisti, anche se a dire il vero è una tensione che ho sempre sentito nei miei progetti dagli AFA in poi. Inserire nella forma canzone elementi obliqui, provenienti da altri ambiti, elementi che provengono magari dalla musica colta ma che poi vengono messi al servizio della canzone. Sono interessato a muovermi comunque nella griglia di un brano, con una sua struttura, un testo.
Spesso però questa griglia si apre, slabbra, cola fuori dalla cornice e allora si hanno strutture più aperte. Non voglio però rinchiudermi nell’altisonante categoria dell’avanguardia, cerco di rendere assimilabili e “pop” , suoni e concetti più sperimentali.
Per i tempi di lavoro, ho ormai un metodo, per cui riesco a pianificare e a uscire con un nuovo lavoro nel giro di un paio di anni. Prima l’elaborazione, la preparazione dell’album in solitaria e poi qualche mese insieme al gruppo che mi segue da diversi anni per gli arrangiamenti e la pre-produzione.
Come nasce l’idea di includere “Tutto quello che ho da dire” di Claudio Rocchi nell’album (tra l’altro in un concept album)?
Rocchi è una figura particolare della musica italiana, una sorta di cantautore psichedelico che ha sperimentato tanto. I suoi testi sono un riferimento alle filosofie e religioni orientali. Non lo conoscevo profondamente, avevo ricordi di brani che passavano nelle radio libere quando ero adolescente, ma questa sua canzone l’ho ripresa perché all’interno del disco mi sembrava una ninna nanna, un momento di dolcezza e di speranza. Certo è una dichiarazione d’amore agli umani, alla terra, ai suoi elementi. In un concept dalle tematiche così dense e cupe poteva essere il momento di speranza, la risposta ultima.
Sei stato l’ideatore di Materiale Resistente, rilettura dei canti della Resistenza, nel ’95. Pensi che sarebbe possibile una riproposizione attuale di qualche iniziativa simile?
A dire il vero Materiale Resistente è stato riproposto nel 2010 e per il settantesimo della Liberazione nel 2015. A quest’ultima edizione hanno partecipato diversi gruppi che presero parte all’evento originale del 1995, più alcuni nomi che non avevano preso parte alla storica iniziativa ma che si riconoscevano negli ideali e nella conservazione della memoria resistenziale.
Nel 1995 ci fu una bellissima commistione tra l’eredità partigiana e tanti giovani antifascisti che volevano attualizzare quella preziosa eredità. Oggi mi sembra che sia diventato più difficile trovare elementi, situazioni, urgenze che possano aggregare. Forse la metà degli anni Novanta era un momento storico-sociale particolare (la discesa in campo di Berlusconi e l’affacciarsi della cultura fininvestiana) per cui tutti si sentirono in dovere di farsi sentire, musicalmente o con qualsiasi mezzo espressivo.
Molti giovani che non si riconoscevano nella politica tradizionale trovarono una nuova casa nell’Anpi. Oggi siamo sempre più senza case, luoghi, territori. Vedo parecchia disgregazione e intorpidimento.
Che cosa ti piace del panorama indipendente italiano di oggi?
Cerco di ascoltare più cose possibili e se debbo essere sincero credo che ci sia un grosso malinteso. Penso che molti degli artisti e gruppi che ancora vengono considerati “indie” o alternativi dovrebbero stare stabilmente nelle classifiche di vendita, sui network radio, in televisione in prima serata. Non lo dico con disprezzo o spocchia, anzi, sarebbe finalmente un segnale che la musica leggera, il pop italiano, si sia finalmente ringiovanito.
Un po’ sta avvenendo ma ci sono voluti anni e perché succedesse i prodotti si sono dovuti uniformare a certi standard dell’orecchio italiano e quindi dei suoi contenitori classici, vedi Sanremo. Occorre vedere a lunga distanza e capire chi riuscirà a sopravvivere alla velocità con cui si sfornano e producono fenomeni musicali. In fondo oggi sono i talent che dettano i meccanismi promozionali.
Per motivi famigliari ho avuto modo di ascoltare parecchia trap, quella che ascolta mia figlia, dal punto di vista musicale potrei anche essere interessato a sonorità e beat mutuati dalle produzioni estere, il problema sorge con i testi, con i contenuti che vanno dal reazionario al consolatorio. L’inghippo è che la presunta immagine di rottura, si infrange sui tic, sui vizi, sugli status symbol beceri, volgari del sistema capitalista (perdonami questa terminologia finale sopra le righe!)
Perdonato! C’è una chiave di speranza verso la quale guardare, pur all’interno di storie spesso molto tragiche come quelle esposte nel tuo album?
Forse la consapevolezza della pericolosa direzione intrapresa dagli umani, forse la coscienza che riaffiora nei momenti più bui e inquieti. Per la prima volta stiamo assistendo in tempo reale alla possibile fine di un’epoca, dell’umanità, del pianeta? Il tutto è terribile e affascinante allo stesso tempo, in fondo stiamo recitando in un romanzo o film distopico.
Sembra un gioco di realtà parallelle come nei libri di Philip K Dick. Infanti è la title-track, il brano finale che come in un loop si collega al brano iniziale Rinascere. La coda di Infanti è quasi mantrico con atmosfere medio-orientali, come se il disco fosse alla fine piombato negli odierni scenari di guerra, il disco sembra finire tra gli scenari apocalittici delle città rase al suolo, tra i resti delle antiche civiltà abbattuti dalle bombe o da uno scenario post-apocalittico ma poi da lì riprende il cammino, fugge, cerca salvezza, cerca per l’appunto di rinascere ed essere accolto altrove.