Si chiama Homo distopiens l’ultimo lavoro in ordine di tempo di Fabrizio Tavernelli. Attivo negli anni ’80 con En Manque D’Autre (bizzarro combo della new wave italiana) e nei ’90 con gli AFA (prima Acid Folk Alleanza) con i quali incide album tra crossover e elettronica per Sugar di Caterina Caselli e Dischi del Mulo/Consorzio Produttori Indipendenti (label voluta da Massimo Zamboni e Giovanni Ferretti). E’ideatore dell’evento “Materiale Resistente”nel ’95.
Nel 2018 esce Infanti, un concept album sull’abuso dei bambini nelle odierne guerre digitali/mediatiche. L’ultima uscita è un nuovo progetto che ha come centro le attuali emergenze climatiche, il nostro impatto sul pianeta, la stessa sopravvivenza del genere umano. L’Homo Sapiens si trova oggi di fronte a apocalittici scenari ipotizzati nei film, nei romanzi, nelle oscure visioni distopiche.
Fabrizio Tavernelli traccia per traccia
Si incomincia con calma: Cose sull’orlo è un’introduzione tranquilla all’album, ricca di melodia, atmosfere soffuse e pensieri morbidi, all’apparenza. In realtà si racconta di un mondo in disfacimento, ma con una tale tranquillità che quasi non ce ne accorgiamo neanche. Come nella realtà, insomma.
Atmosfere quasi beatlesiane quelle di Distopia muscolare, con apparente leggerezza di parte delle sonorità, che però qui e là decollano verso mondi lontani.
“Non ho tormentoni da darti/ho solo tormenti”: piuttosto critica, per usare un largo giro di parole, nei confronti della musica commerciale Tormentoni e tormenti. Con qualcosa di Battiato e di punk sullo sfondo.
Aria più rarefatta quella di Lune cinesi, che parla dei deserti di Sichuan e delle strade di Chengdu e di sonno perso. Tra il jazz e la psichedelia, muovendosi agilmente.
Ci si lascia avvolgere da sonorità con riferimenti orientali all’interno di Spire, morbidamente danzante.
Oumuamua, con il coro della cappella musicale San Francesco da Paola di Reggio Emilia, diretto da Silvia Perucchetti, percorre deserti cosmici, con recitati che sanno di antico e di fantascienza insieme.
Archi e scenari post-apocalittici quelli che si delineano ne Il mondo senza noi. Atmosfere ovattate, eleganza e qualche cosa che fa pensare ai La Crus appare in Secondo fine.
Sembra partire regolare L’uccello giardiniere, ma poi inizia a svariare in modo palesemente psych, su orizzonti che si fanno tremolanti.
Molto più nervose le sensazioni trasmesse da Pessimismo co(s)mico, costruita su grumi di ritmo e di suono che nella seconda parte del brano si sciolgono soltanto in parte.
Ecco poi Ruscarola, tra dialetto e allarmi, dove la tradizione popolare incontra la psicosi. Bargigli e pappagorge chiude l’album con desideri frustrati e con una descrizione dell’anzianità non proprio incoraggiante.
Ora che siamo un po’ tutti immersi in una sorta di distopia, è anche più chiaro che cosa intendesse Fabrizio Tavernelli per Homo distopiens. E benché diffuso prima dell’epidemia, l’album del cantautore non potrebbe essere più calato nei tempi. Per quanto riguarda i suoni, le scelte sono fatte con perizia e sapienza e il risultato è un disco avvolgente e intenso, che si può ascoltare con calma anche in tempi meno distopici.