Giuseppe Righini, ha vinto la luna piena #TraKs
Il cantautore romagnolo Giuseppe Righini ha appena pubblicato il proprio terzo lavoro: dieci tracce che prendono il nome da un celeberrimo mago dell’illusione, Houdini. Ecco la nostra intervista.
Come ti sei avvicinato a questo terzo disco? Quali sono state le idee fondanti?
Houdini arriva a quattro anni di distanza dal mio secondo album inedito, In Apnea, e a due anni dal doppio disco di remixes Enciclopedia completa di uno sconosciuto.
Si tratta di un disco per me piuttosto radicale sotto diversi punti di vista. Io e il produttore, Fulvio Mennella, abbiamo deciso di impostare il lavoro in una maniera piuttosto essenziale, enfatizzando anche la distanza che per parte del tutto ci ha fisicamente separato, io a Berlino lui in Italia: squadra ridotta al minimo, scambio di files, largo uso di elettronica, confronto diretto e senza rete su tutti gli aspetti del progetto.
Ne è uscito un album che, a livello di impostazione concettuale, ricorda a mio avviso esempi come Suicide, Soft Cell e via discorrendo. Dal punto di vista prettamente musicale e compositivo si tratta probabilmente del mio disco più pop e al contempo chiaroscuro, forte di luci e ombre molto marcate.
I testi frequentano vette e abissi, le tematiche sono sia salvifiche che di collisione. L’elettronica pareva decisamente il teatro più indicato, in fase di produzione e post produzione, per dar giusto luogo e coordinate a tutte le canzoni che vengono comunque sempre da me composte in maniera estremamente classica, basica e tradizionale, alla chitarra.
Ma sia io sia Fulvio siamo comunque anche grandi consumatori di elettronica, e in questa fase del nostro percorso professionale e creativo eravamo entrambi interessati a fare un passo deciso in quella direzione.
Quanto ha inciso l’uscita del cofanetto di remix “Enciclopedia completa di uno sconosciuto” nelle scelte elettroniche di questo disco?
Sicuramente l’uscita di quel cofanetto non ha ostacolato una tendenza e un’esigenza che comunque covava sotto la cenere da tempo.
Diciamo che affidare i remixes integrali dei miei primi due albums a colleghi, amici e manipolatori di varia estrazione, elettronica e non, è stato un passaggio importante e intermedio verso ‘Houdini’, ma non certo inaspettato.
Io sono fin da ragazzino realmente onnivoro dal punto di vista musicale e l’elettronica, radicale e non, ha sempre avuto un posto importante tra i miei ascolti esattamente come tutte le altre forme di canzone e produzione.
Non faccio distinzione tra Peggy Lee, Nirvana, Tom Zè e, che so, Alva Noto. Inoltre ho sempre amato profondamente le versioni ‘altre’ delle canzoni in generale degli artisti che amo, dunque la tentazione di riservare lo stesso tipo di trattamento alle mie storie era irresistibile.
Enciclopedia completa di uno sconosciuto, nel mio percorso, rispetto a Houdini più che una causa scatenante ai miei occhi pare una propaggine, una premessa di una intenzione che ha radici più ampie, profonde e antiche.
Perché “Houdini”? Che cosa ti ha ispirato nella figura del famoso illusionista?
Ci sono motivazioni precise, mirate e altre più leggere. Almeno in apparenza. Houdini è una figura per me affascinate e stimolante in senso lato, oriunda e apolide tra vecchio e nuovo continente, antica e modernissima, è il titolo di una delle canzoni dell’album in cui vengono indicati alcuni concetti cardine dell’intero disco e, nello specifico, questo mio terzo album è tra tutti quello forse più propenso alla danza dei sette veli.
Anche il fatto che si tratti probabilmente dell’archetipo pop più diffuso della figura dell’illusionista ha influito nella mia scelta. Ci sono poi motivazioni più ludiche e personali, non per questo meno importanti: io sono da sempre appassionato di numeri e assonanze, e le consonanze tra il suo e il mio cognome mi hanno vinto.
Come nasce “Licantropia”?
E’ una canzone d’amore dedicata ad un lupo. Ce n’era una anche nel mio primo disco, Spettri Sospetti, intitolata Ninna Landa. Il tema mi è caro. Il lupo è un animale che ha sempre avuto su di me un fascino potente, fin da bambino.
Non mi spaventavano le favole dove c’era lui, anzi, mi attraevano. Faticavo a vederlo come un animale cattivo. Vale ancora così per me. In Licantropia ho giocato sull’ambivalenza, l’ambiguità di questo mio pensiero rispetto al sentire comune.
E’ una vera canzone d’amore, e l’amore a mio avviso ha anche elementi, diciamo così, estremamente rossi e carnivori. Mi piaceva l’idea di alambiccare con questa visione di una dichiarazione d’amore che, a seconda di come la si guarda, può essere vista come benedizione ma anche inevitabile destino, inespugnabile legame.
Certamente il titolo, trattandosi di una torch song, può creare in alcuni confusione. Ma io trovo che sia estremamente chiarificatore invece.
E’ stata la prima take vocale delle registrazioni dell’album. Fulvio era tutto contento del testo, ma quando gli ho detto il nome definitivo che avevo deciso per il pezzo mi ha guardato ironicamente, dicendomi: ma perché non metti più alle canzoni dei titoli normali, tipo ‘I fiori di plastica sono per sempre’?! Poi abbiamo riso. E ha vinto la luna piena.