“Grande Raccordo Animale”, Appino: la recensione #TraKs
Due anni dopo il molto (giustamente) premiato Il Testamento, Appino torna a pubblicare da solista, lontano dai suoi Zen Circus, con Grande Raccordo Animale.
Il disco rappresenta un cambio di atmosfere rispetto al precedente e più aggressivo album: il cantante ha deciso di vestire per intero gli abiti del cantautore, staccandosi in maniera più netta dai suoi della band d’origine.
Il disco si apre con Ulisse, che dopo un breve incipit disegna atmosfere da cantautore moderno, con inciso reggae che fa ricordare immediatamente la produzione di Paolo Baldini, e una rilettura del mito calata in un quadro contemporaneo e meno ricco di speranze.
Rockstar, già presentata come singolo, si configura come un (auto)ritratto tranquillo e un confronto con una possibile realtà quotidiana futura che si scoprirà non particolarmente rassicurante.
La title track Grande Raccordo Animale è ritmata dalla chitarra acustica. Il brano poi attraversa fasi e sapori diversi, con l’uso di cori, trombe, battimani, e da intima si trasforma in una fiesta sudamericana.
New York ha un passo di pop-rock tradizionale, qui e là anche con qualche sfumatura parodistica, con un breve finale di chitarra elettrica.
La volpe e l’elefante cambia suoni e fa perno su un groove che punta direttamente a un giro funky della chitarra, per una danza dai molti colori.
Linea Guida Generale si dipana in modalità veloci , per un brano di tutta freschezza molto diretto e ricco di buoni consigli. L’isola di Utopia al contrario all’inizio fa perno su una serie di “non credo” che però si traducono in credenze e affermazioni, tra Thomas More e Carl Gustav Jung.
Galassia si costruisce su un beat ripetuto sostanzialmente dance, ma il discorso cresce via via più aggressivo e più rock, con un finale in cui si scatena la batteria. Buon anno (il Guastafeste) è una curiosa canzone d’auguri corale.
Molto morbido l’andamento di Nabuco Donosor: con un percorso non rettilineo seguiamo il varo e il viaggio di una nave immaginaria attraverso orizzonti psichedelici.
Si chiude con Tropico del Cancro, che rappresenta l’esito di una cena realmente avvenuta, nonché un rapporto comunque non sempre facilissimo con il pubblico, nonché una sorta di Avvelenata che viaggia da Berlinguer all’aragosta senza soluzione di continuità.
Ciò che impressiona del disco di Appino è la padronanza assoluta del mezzo: perché se è vero che ha alle spalle un disco da solista molto premiato, cui si sommano le esperienze maturate con gli Zen Circus, la sorpresa è la capacità di cambiare ambito di riferimento senza perdere la forza delle composizioni.