Con il loro disco in fiera anteprima streaming su TraKs (puoi ascoltarlo e leggere la recensione qui) i genovesi Case di Vetro rispondono alle domande della nostra intervista che parte prima di tutto dall’ep Sete, ma che poi spaziano fino alla Manchester degli anni Novanta.
Potete riassumere la storia della band fin qui e spiegare il nome della band?
La band esiste da circa 4 anni, all’inizio eravamo solo Andrea a Valerio, si suonava come fanno molte band mettendo ognuno il proprio, non c’era una linea decisa e decisiva, si provava a conoscersi l’un l’altro e a prendersi le misure. Poi è entrato Fabrizio, con queste chitarre molto riverberate, delay e il gusto per l’effettistica, e da lì abbiamo preso una prima direzione, molto sperimentale.
A Vale piacevano le prime band post rock anni 90, Fabri veniva da quel mondo, poi è arrivato Alfonso e le cose hanno preso una direzione ancora più netta. Le linee vocali diventarono più oniriche e i pezzi mutarono in strutture maggiormente pop. Valerio iniziava a effettare le tastiere, contemporaneamente Andrea toglieva pezzi alla batteria, rendere i tempi più trascinanti e d’impatto, così come al basso si sono scelte linee più semplici e attaccate alla batteria, soprattutto con l’arrivo di Stefano che ha un approccio allo strumento molto diretto.
E siamo arrivati a oggi, con questo primo ep che vuole sintetizzare più che la storia della band fino a oggi, la nuova tendenza e il nuovo portamento. Per il nome della band spesso lo citiamo, perché è la definizione che meglio spiega l’intenzione dietro a queste tre parole: “Io metto pezzi di mondo sotto vetro perché quello è un modo di salvarsi… Si rifugiano i desideri, li dentro… Al riparo dalla paura… Una tana meravigliosa e trasparente… Lo capisce, lei tutto questo?”. Da Castelli di rabbia, di Alessandro Baricco.
Aaaaah vedi, avessi saputo che era una citazione da Baricco facevo una domanda diversa, magari su che tempo fa a Genova oggi… Quali sono state le sensazioni e gli umori che hanno accompagnato la lavorazione di “Sete”?
Andare a registrare il primo disco, se pur si tratta di un ep, è sempre una sensazione particolare, non sai bene cosa ne uscirà e soprattutto se rispecchierà davvero quello che volevi dal disco. C’era molta energia in sala, Fabrizio era letteralmente impazzito, come portare un bambino al parco giochi. In generale l’ambiente era grandioso, stimolante, sono state due settimane davvero intense. Mangiavamo, bevevamo e registravamo, dormivamo anche in sala. I giorni e le ore erano contate e la tabella di marcia a volte frenetica.
Avete voglia di raccontare in due parole il significato che hanno per voi le cinque singole tracce dell’ep?
Fermo Immagine è il pezzo sognante, il ricordo stupendo che alleggerisce una vita tormentata. Sete è lo spasmo nella boccata d’aria dopo l’apnea. Il nostro tempo è la consapevolezza che bisogna prendere le distanze dalle pazzie di ogni giorno. Solaris per certi versi è il pezzo più pretenzioso dell’intero ep, è onirico e in qualche modo vuole avere una tensione prettamente estetica, volta a recuperare l’arte come “alternativa sognante” rispetto a una realtà pragmatica e cinica, e direi anche senza speranze, a livelli disperati. Tempesta è il risveglio leggero.
Case di Vetro, più fedeli possibile
Potete spiegare quale strumentazione avete utilizzato per suonare in questo disco?
L’idea di partenza era quella di registrare i pezzi in modo che risultassero più fedeli possibile alle nostre esecuzioni live, quindi non c’è stata molta post-produzione. Abbiamo usato i nostri strumenti assieme a quelli dello studio Wasabi Produzioni. Per la batteria si è optato per quella presente in studio, con un suono stupendo, il rullante in particolar modo è stato scelto per il suo timbro molto profondo.
Il basso è stato collegato a un big muff per chitarra in alcune parti, e in altre addirittura in un pedale riverbero, per dare ulteriore spazialità. Per le chitarre la questione è molto più complessa, il nostro chitarrista è un patito degli effetti, ha portato con sé ampli, due chitarre (una Telecaster modificata e una Jazzmaster) e pedaliera.
Nel disco si possono sentire suoni provenienti da pedali come Eventide, Strymon e Tc Electronic, con largo uso di delay e riverbero. Le parti ritmiche sono state registrate tutte con un Vox ac15 e diverse chitarre: una Yamaha Pacifica, una Gibson Les Paul e la Jazzmaster, tutte quante passanti per diversi pedali, tra cui uno splendido Boss Rv-5. Le tastiere sono un mix di analogico e digitale: siamo riusciti ad avere un Fender Rhodes e l’abbiamo collegato a diversi pedali e amplificatori, poi il nostro tastierista ha deciso di usare un Roland Gaia e anche alcuni suoni digitali.
Il tutto è stato ripassato attraverso un preamplificatore di un registratore a nastro, e gli ha dato un tocco di calore e profondità che ci è piaciuto molto. Gli ambienti delle voci e degli altri strumenti sono di un vecchio riverbero Lexicon, e per alcune parti elettroniche in mezzo ad alcuni pezzi si sente un Kaoss Pad (collegato a un delay, sentivamo la mancanza di ritardi..). Questa è stata la nostra strumentazione, insomma, tanti delay e tanti riverberi, usati, a volte, in modo non tradizionale.
La classica domanda di chiusura: si sa che il grande successo musicale si raggiunge costruendo delle rivalità fasulle (Beatles/Stones, Blur/Oasis, Albano/Romina eccetera). Potreste scegliere uno o più rivali e criticarli, anche per finta, ma aspramente, provocando poi risposte che faranno vendere a tutti molti più dischi?
Facendo finta di essere nella Manchester del 1994 (e non nella Genova del 2015) vogliamo prendere di mira una band che realmente fa Brit Pop, ma lo fa in una maniera schifosamente indie rock, roba che The Fratellis come band sono dei poppanti. Loro sono i Pottos, avete capito bene, i POTTOS. Non ci bastavano gli Arctic Monkeys? No. Dopo le scimmie artiche abbiamo anche le scimmie puttane africane, cosa c’entreranno poi le scimmie con una band che “prova” a fare brit pop? Se poi una band suona bene si può permettere di chiamarsi in qualsiasi modo, ma in questo caso… E se vogliamo parlare di altre band, ci sarebbero i Dresda che, anche loro, provano a fare post rock nel 2015, ma finiscono a fare post rock degli anni 0. Poi ci sono i Moscow Club, che cercano di fare un disco new wave nel 2015 e finiscono a fare post punk del 1979, robe da matti.