Abbiamo ascoltato in anteprima IRA, il nuovo album di IOSONOUNCANE, che uscirà il 14 maggio per la rinata etichetta Numero Uno (distribuzione Sony) e per La Famosa Etichetta Trovarobato. Stiamo parlando di uno dei dischi più attesi di questi anni, l’erede di DIE, album del 2015 capace di scardinare parecchi concetti base della musica italiana contemporanea, sperimentando ma al contempo dialogando con il pop, perfino con l’indie.
Però uno come IOSONOUNCANE non è mai dove penseresti di trovarlo. Lo conferma IRA, disco previsto inizialmente per il 2020, rispettando la cadenza quinquennale iniziata con La macarena su Roma del 2010, ma spostato al 2021 per i noti motivi. IRA non è il successore dei primi due dischi, va decisamente oltre. Diciassette tracce, 1 ora e 50 di musica per un lavoro partito da circa quindici ore di bozze e provini. IOSONOUNCANE ha scritto e arrangiato in ogni singola parte, nota, accento.
Ci racconta il comunicato stampa che il disco è stato concepito seguendo alcuni punti fermi: un ensemble preciso per il quale scrivere, una serie di musicisti sui quali modellare strutture, arrangiamenti, timbri, dinamiche, trame vocali.
IRA è quindi una partitura interamente eseguibile dal vivo dai musicisti che hanno suonato nel disco: Mariagiulia Degli Amori, Serena Locci, Simona Norato, Simone Cavina, Francesco Bolognini e Amedeo Perri. Il disco è coprodotto da Bruno Germano, già produttore di DIE assieme allo stesso IOSONOUNCANE.
Nota a parte riguarda il linguaggio dei testi, da sempre tra le chiavi fondanti della poetica dell’artista sardo. La lingua qui è del tutto indeterminata, mescola elementi diversi, si fa incomprensibile, più suono che parola.
Sempre dal comunicato: “Una lingua dell’errore, della distanza percorsa e ancora da percorrere, una lingua del fraintendimento, della mancata comunicazione. Quella di IRA non è quindi una neolingua, bensì un lingua momentanea, della necessità, fatta di errori e di un lessico occasionale, sradicato e confuso, che mischia inglese, arabo, francese, spagnolo, tedesco e italiano“.
IOSONOUNCANE aveva già tentato un depistaggio, con il singolo uscito l’anno scorso che recava Novembre sul lato A e la cover di Vedrai, vedrai sul lato B. Un’uscita meravigliosa, ma di passaggio, che non aveva nulla a che vedere con il lavoro precedente e che ha pochissimo in comune con questo disco.
Non si può e non si deve approcciare IRA come si farebbe con un disco “normale”: è un’opera teatrale, una sinfonia del futuro, un lavoro che definirà meglio i propri contorni nel corso del tempo. Finendo per rivelarsi un capolavoro oppure per ricoprirsi di polvere, dimenticato in un angolo.
IOSONOUNCANE traccia per traccia
C’è un rispetto quasi religioso che ti coglie quando ti accosti a un disco così atteso e per certi versi “temuto”: deluderà? Sarà quello che ti aspetti o stravolgerà le tue idee sull’artista? Probabilmente IOSONOUNCANE questo lo sa e parte in maniera estremamente cauta e avvolgente, con Hiver, brano dal passo lento, con il pianoforte e una crescita controllata che fa pensare a poetiche anglosassoni e a ballate appoggiate sulla risacca del mare.
Poi ecco Ashes, che della calma iniziale non mantiene traccia: i percorsi e i ritmi sono più serrati e metallici, quasi industriali, salvo far crescere improvvise sinfonie interne che però non rinnegano le radici ossessive del pezzo, anzi le rafforzano e corroborano, in una struttura circolare del brano che al termine riporta nello stesso luogo di partenza.
Ossessioni e loop dettano il passo anche su Foule, che sembra inoltrarsi in atmosfere antiche, forse orientali, risonanti e punteggiate di piccoli suoni marziali, con il drumming a fare da filo di congiunzione per tutto il tempo del brano.
Gli orienti e i deserti accennati in Foule sembrano più concreti in Jabal, sorta di cavalcata esotica e forse esoterica a velocità costante, almeno fino a una cesura intermedia, che poi introduce tamburi tribali e ancora danze, cori, rituali da consumare attorno al fuoco.
I contorni ossessivi, inquietanti, riemergono con Ojos, in cui gli archi sottolineano i passaggi più ricchi di pathos, ma in cui una batteria quasi jazz si propone di cancellare la tranquillità dall’ascoltatore, per lo più riuscendoci.
Si fa dolce, quasi romantico benché un po’ dissonante, il viaggio di Nuit, brano che peraltro cita quasi sempre “le jour”, lirico negli accenti e capace di trasformarsi e di farsi muscolare durante il proprio percorso.
Cori quasi soul o gospel, quelli che caratterizzano Prison: i prigionieri levano un canto sempre più celestiale, nell’illusione di liberare almeno la propria voce. Ma dietro si muovono architetture musicali incombenti e minacciose. In coda, voci minacciose berciano ordini tra gli allarmi che suonano.
Horizon riporta la calma, fatta di piccoli elementi che si evolvono quasi non parendo, raccontati e tessuti uno per volta, in un brulichio moderato e coerente. Con Piel siamo quasi al pop-rock. Certo, come lo farebbero i King Crimson o i Radiohead o giù di lì, ma i ritmi sono quelli e le sensazioni parzialmente rivolte in quella direzione.
Arriva poi Priere, mostro che cresce poco per volta e con dolcezza, mescolando i suoni in senso ascensionale, su cadenze regolari e una marcia che sa di condanna. Niran interviene su temi che sanno di dramma controllato.
Arrivano i Soldiers e l’atmosfera si fa dolce, nostalgica, romantica e anche un po’ retrò, in una ballata dolce ma suscettibile come sempre a cambiamenti. I piatti della batteria fanno da elemento legante per la prima parte di Fleuve, che poi si trasforma in un percorso in un tunnel, sempre guidato da battiti e voci.
Il richiamo del Sangre si incentra sul falsetto e sulle dinamiche della chitarra, che sono l’essenza del brano attorno al quale però si muovono molti altri elementi. Drumming sempre presente e profondo. C’è spazio per gli isolamenti di Petrole, che emerge con modi sottili, prima dell’arrivo di vibrazioni finali che cancellano la calma precedente.
Ritorna nel deserto Hajar, che prosegue dalle vibrazioni di cui sopra per impostare canti di guerra e di aggressione. Danze di dervisci rotanti si palesano davanti ai nostri occhi, in una sorta di sabba urlato e parossistico, cui sarà interessante assistere dal vivo.
La chiusura è affidata a Cri, passo lento e voce acuta, per un’uscita melodica dal disco, sipario ideale per un disco dalle atmosfere così varie da costituire un piccolo mondo a sé.
I giorni dell’IRA
La copertina del disco mostra (presumo) IOSONOUNCANE nudo ma indistinguibile, perso nel buio “rumoroso” di una foto lontana e molto nera. Probabilmente il “messaggio” (ammesso e non concesso che un messaggio ci sia) del disco è già tutto qui, nel mostrarsi nascondendosi, nell’esporre in modo invisibile.
Un lavoro che si fa fatica a racchiudere in quello che a noi giornalisti piace tantissimo fare: etichettare, mettere sotto un genere e in qualche modo rendere inoffensivo. Perché se metti una cosa in una scatola, poi non ti può più minacciare. Ma non è questo il caso: l’IRA continua a minacciarci e lo farà a lungo.
Qui c’è una materia viva che pulsa quasi da sola, un battito che non si spegne nemmeno quando finisce il disco. Qui ci sono tanti elementi che richiedono la nostra attenzione e che probabilmente troveranno un senso soltanto di fronte a un’esecuzione dal vivo che porti in evidenza tutti gli oggetti narrativi del discorso.
Pur comprendendo la scelta stilistica di rendere i testi inintelleggibili, rimane la curiosità di sapere che cosa avrebbe scritto, in termini poetici e simbolici, la penna di IOSONOUNCANE sui tempi che viviamo, non soltanto quelli recenti, ipercommentati ad nauseam, ma anche su tutto quello che non si vede sotto la luce ma che esiste. Ma la risposta artistica evidentemente va proprio nella direzione dell’incomunicabilità o della comunicazione mescolata e non distinguibile.
Per scelta, ci asteniamo da un “giudizio”. Ci piace più raccontare che fare i professorini anche con i dischi di chi ha esordito l’altro ieri, figuriamoci con un’opera di questo genere. Ovviamente non dedicata a un pubblico vastissimo (ma i soldout dei concerti e le cifre degli ascolti possono far supporre tutt’altro) questa è un’opera che va degustata con calma, forse inadatta allo streaming parcellizzato ma in grado di reggere molte più sfide di quello che potrebbe apparire.
Pensare che questo sia un disco fatto per affrontare i “mercati” internazionali, oppure qualunque mercato, fa ridere. Eppure non saremmo sorpresi che l’eco di questa uscita varcasse i nostri confini, anche in grazia del suo grammelot così difficile e così semplice a un tempo, di tutte le suggestioni che regala, di una ricerca sonora che, a prescindere da tutto, è talmente monumentale da collocarlo subito fra i classici con cui quest’epoca si dovrà confrontare.
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