Iosonouncane, “Qui noi cadiamo verso il fondo gelido (Concerti 2021-22)”: recensione e streaming
Pur utilizzando raramente superlativi, noi di TRAKS qui e là un paio ne abbiamo spesi per Iosonouncane, la cui opera si fa sempre più monumentale e importante con il passare degli anni. Monumentale è anche il nuovo album, Qui Noi Cadiamo Verso il Fondo Gelido – Concerti 2021-22, registrato completamente dal vivo e composto prevalentemente da tracce inedite, in uscita per Numero Uno (Sony Music) / Tanca Records (Trovarobato).
Registrato durante i tour che hanno seguito l’uscita di IRA, l’album presenta alcuni dei migliori momenti di questi concerti, fra teatri, festival e sale da concerto, oltre al ritorno al Primavera Sound di Barcellona. In questo periodo Iosonouncane ha suonato con la formazione in trio e con la full band di sette elementi.
Iosonouncane traccia per traccia
Disco1
Pulsazioni e battiti aprono inam, che lavora per lo più all’oscuro e suggerisce realtà e richiami appena accennati, riempiendo tutta l’atmosfera di inquietudine che non passerà mai.
Voci sottili e un percorso luminoso attraversano ashes, che si insinua un po’ per volta, mentre il cantato assume colori quasi soul. Poi il brano diventa frenetico e pulsante, assumendo modalità quasi techno in una cavalcata rumorosa e parossistica. Poi arriva la voce, la sua voce, a rimettere le cose a posto, per far capire che per quanto ardua sia stata la salita, poi da lassù il panorama merita la scalata.
Suonano le trombe nell’episodio seguente, ma non siamo a Gerico e non crollano mura: al contrario si celebra una notte minacciosa e movimentata, vagamente jazz, sicuramente complicata. Bestas sale un po’ per volta, inseguendo un battito, ma con suoni formicolanti che provano a scalare e a riempire l’orizzonte. Poi il brano si trasforma, ma mantiene un carattere epico e bellicoso. La breve simùn arriva a offrire un po’ di sollievo dopo panorami molto cupi.
Arriva poi la ben nota buio, da DIE, serpeggiante e ricca di “rumore di fondo”, prima che di nuovo si alzi la voce a regalare qualche sprazzo di serenità. E mentre i gabbiani volano sul porto, ecco che sorge un’alba d’acciaio, fitta di suoni industrial e di noise sempre più invadente.
Acclamata dal pubblico, ecco poi tanca, con il suo incedere ronzante e pesante, basata su battiti e gutturalismi. Questa volta il cantato aggiunge qualcosa all’ansia, anche se si tiene un po’ indietro rispetto alla versione su disco. Senza smettere di suonare, ecco cabot, con i suoi battiti regolari e lontani, e con le sue escursioni sonore, a chiudere il primo disco dell’opera.
Disco2
ojos, con il suo incedere quasi funebre, apre il secondo disco: non c’è una grande liberazione in fondo ai modi scuri del brano, ma c’è un trasporto verso qualcos’altro, verso mete non facilmente esplicabili. Ecco poi polvere, con i suoi accenni e il suo senso di incompiuto che aleggia. Loop di senso in cui la polvere, i suoni e le voci si depositano e cambiano il panorama, ma un dettaglio alla volta.
E dopo la “veloce” (tre minuti e mezzo) ararat, che ci fa esplorare il monte dell’Arca, contemplando il diluvio sottostante, ecco i piccoli vagiti e le bufere di prison, un’evasione di massa con handclap e ululati. Il pezzo chiude con grida e proclami, in un’aria sempre più asfittica.
Molto più vaste le idee che introducono voci, che pure si orienta in direzioni diverse, salendo da un tracciato molto minimale. Il canto è centrale in niran, accompagnata da percussioni che viaggiano a fondo. Il finale del brano si orienta sui synth e su echi quasi subacquei.
Ronzii, voci orientali, sensazioni tribali colorano di tinte comunque scure hajar, che si fa furente ma anche corale. Coda finale prolungatissima e sempre più dinamica. Dopo la breve sinking, ecco il finale, non liberatorio ma a suo modo consolante, di sacramento.
Dove ci porta Iosonouncane?
Dove ci porta, Iosonouncane? Cercando di evitare le banalità (tipo “verso la musica del futuro”, il che peraltro è probabilmente vero) è difficile intuire direzioni di una mente evidentemente molto poliedrica e capace di sterzate improvvise. Anche se la tendenza è quella di andare verso composizioni sempre più strumentali e in un certo senso sempre più sinfoniche.
Se si deve giudicare dal percorso Macarena-Die-Ira-Fondo gelido (senza dimenticare il recente episodio di Jalitah, con Paolo Angeli), si può notare, superficialmente, come il testo abbia progressivamente perso importanza, passando dalla narrazione iniziale, per poi farsi grammelot di lingue mescolate, per poi sparire quasi del tutto nei brani inediti di questo disco.
Ma di certo non si può dire che non dia alle parole la giusta importanza: si noti per esempio come da dopo La Macarena su Roma abbia con cura scelto sempre titoli di una sola parola per tutti i suoi brani, come se stesse costruendo un po’ alla volta un suo vocabolario sonoro, in cui a ogni parola, esistente o inventata, italiana o straniera, si associ una melodia e una costruzione sonora. Se non è Borges questo, non so chi sia Borges.
Tuttavia è proprio un’operazione in cui il suono, i suoni, prendono il controllo della situazione e ci portano in realtà diverse, più sconfinate oppure anche minuscole e delimitate. La scelta di inserire numerosi inediti in un disco registrato dal vivo e in situazioni diverse spinge più in là l’idea di sperimentazione e anche di improvvisazione su canovaccio esistente.
Sempre rispettando uno spartito mentale che rende omogenee e coerenti le avventure sonore, sia provenienti dal passato, sia recentissime. Sempre senza perdere un senso di fondo che anzi si plasma sempre più. E’ oggettivamente uno degli ultimi artisti che valga la pena di ascoltare “intero”, disco per disco, senza saltare le tracce, perché si perderebbe la direzione, il verso, l’obiettivo.
Dove ci porti, io non lo so. Ma è sicuramente un posto che vale la pena di visitare.