Come da tradizione (recente) dedichiamo agosto alla lettura: per il 2024 abbiamo deciso di ripubblicare una serie di pagine tratte dal volume “Italia d’autore” (Arcana, 2019), dedicato ai grandi cantautori che hanno fatto la storia della musica italiana

Ivan Graziani nasce a Teramo il 6 ottobre 1945. Il suo rapporto con la musica inizia molto presto, ma non è quella per la chitarra la sua unica passione: dimostra doti anche nel campo del disegno, tanto da diplomarsi in grafica e da iscriversi a Belle Arti a casa di Raffaello, a Urbino.

Tuttavia sarà la musica a portarlo via: prima ci sono Nino Dale & his Modernists, che lo fanno esordire come cantante. Poi c’è la sua band, gli Anonima Sound, con cui partecipa al Cantagiro del 1968. Nel 1970 però parte per il servizio militare: sarà un’esperienza allucinante che racconterà nel libro Arcipelago Chieti, qualche anno più tardi. Quando torna decide di dare inizio alla propria carriera da solista, che prevede ancora un consistente periodo di gavetta.

Graziani si fa le ossa suonando nei dischi altrui, affiancando anche grandi nomi come Herbert Pagani, la PFM, Battisti, De Gregori, Venditti. La strada di fronte a lui, comunque, è chiara: vuole metterci la faccia e cantare le proprie canzoni. Ma quando comincia a farlo, nel 1973, è troppo presto: il disco è La città che io vorrei e ha caratteristiche non lontane da quelli che seguiranno. C’è il morbido ritratto femminile con Luisa e i suoi occhi blu di stoviglia; c’è il riferimento letterario con Tom Sawyer, che è aperta da un coro gospel e che fa pensare a Simon & Garfunkel per il cantato; c’è Il campo della fiera, che mescola virtuosismi chitarristici e ispirazioni popolar-contadine.

Ma non c’è il successo: un po’ troppo originale e fuori dai canoni, il disco non incontra grande attenzione. Nel 1974 ci prova anche con l’inglese e pubblica Desperation, ma anche questo tentativo non è coronato da successo. Allora rimescola un po’ le carte con tato Tomaso’s guitars, che trae il titolo dal nome del primogenito di Ivan, che unisce numerose cover come Bella senz’anima di Cocciante e il classico napoletano Dicitencello vuje a un paio di canzoni inedite.

La Numero Uno

Maggiore attenzione la riceverà, finalmente, con Ballata per quattro stagioni, che esce nel 1976. Il disco è il primo che Graziani incide dopo il passaggio alla Numero Uno. Si apre con la morbida ma nervosa title track e comprende I giorni di novembre, Donna della terra e una rilettura del Campo della fiera. Non si può definire un successo commerciale, ma è la prova che qualcuno inizia ad accorgersi dell’originalità della proposta di Graziani.

Per esempio Antonello Venditti, che lo recluta per il suo Ullàlla e che ricambia il favore quando Graziani realizza I lupi (1977): qui arriva anche un certo successo commerciale, grazie soprattutto a Lugano Addio, morbida composizione che si fonda soprattutto sulle diverse esperienze di vita dei due protagonisti della canzone e dei rispettivi padri.

Nel resto del disco non si dimenticano Ninna nanna dell’uomo e Il topo nel formaggio, che mette in evidenza tutte le qualità di Graziani come chitarrista, soprattutto dal vivo. Altri passi in avanti si registrano con Pigro, disco uscito nel 1978, come al solito acuta mescolanza di tenerezze e cattiveria tagliente. Nel disco c’è Monna Lisa, costruita su una base formata dai ricordi della scuola d’arte, ma allucinata abbastanza da portare al sacrilegio contro il capolavoro leonardiano.

C’è Paolina, altro ritratto femminile disegnato con mano sapiente e con tratto deciso. C’è ovviamente Pigro, invettiva molto ben diretta contro un personaggio a noi ignoto ma molto ben conosciuto dal cantautore. C’è anche Gabriele D’Annunzio, non dedicata al poeta bensì a un omuncolo dedito alla pornografia e vittimizzato dalla moglie di 92 chili che lo picchia con il nerbo di bue, il tutto raccontato fra musiche soavi e leggere ispirate al folk inglese.

E così si prosegue: nel 1979 è la volta di Agnese dolce Agnese: il brano Agnese riprende il tema del Rondò dalla Sonatina in Sol maggiore op. 36 n. 5 di Muzio Clementi ed è la canzone che traina il moderato successo dell’album. Singolare il pezzo quasi satanista Il prete di Anghiari, forse più curioso ancora Taglia la testa al gallo, mentre altri brani da menzionare sono Fuoco sulla collina, Dr. Jekyll & Mr. Hyde e Canzone per Susy.

Ultimi viaggi (e intemperie)

Si arriva così al 1980 con Viaggi e intemperie e con Firenze (canzone triste): chi lo scopre in quel momento pensa a Graziani come a un morbido cantautore di storie d’amore, trascurando per lo più tutti gli altri lati di un autore completo e originale. Ma è l’opinione pubblica che detta gran parte della carriera di un cantautore: assorbita Firenze, così come Agnese e Lugano Addio, ci si aspetta che Graziani prosegua con canzoni dolci e tenere, in grado di appagare le malinconie del pubblico.

Ma il cantautore abruzzese tentenna: prima esce Q concert, con Ron e Goran Kuzminac. Poi è la volta di Seni e coseni, del 1981, che contiene anche canzoni morbide, come Signorina, ma che non devia di un passo dalla varietà di ispirazioni fino ad allora rispecchiata dalla carriera: anzi, se possibile i toni si irrobustiscono, magari senza guadagnare in originalità in canzoni come Tigre. Graziani mette un punto alla propria storia con la raccolta Parla tu, seguita, nel 1983, da Ivan Graziani, che comprende Il chitarrista, Navi e Signora bionda dei ciliegi: l’ispirazione è per lo più blues, il disco ha un discreto successo, ma forse s’intuisce come qualcosa stia cambiando.

Nel 1984 esce Nove, che non è fra i sui album di maggior qualità, così come non è memorabile l’esibizione del 1985 a Sanremo con Franca ti amo. Non sarà l’ultimo passaggio a vuoto, anche se nel 1989 arriva Ivangarage, che sembra riguadagnare un po’ di spinta e di originalità anche musicale, per esempio con Noi non moriremo mai. Purtroppo il titolo della canzone è alquanto impreciso, o forse presagisce oscuramente qualcosa che sta per accadere: nel 1991 esce Cicli e tricicli, poi Ivan riesce a tornare a Sanremo, nel 1994, dove si esibisce con Maledette Malelingue.

L’anno successivo gli viene diagnosticato un tumore al colon, che lo porterà via quasi due anni dopo. Lascia la moglie Anna Maria, i figli Tommaso e Filippo (che sta tuttora portando in giro le canzoni del padre in tour) e un lavoro interrotto: quello di riuscire a coniugare l’abilità del chitarrista con l’ispirazione del cantautore, capace di uno sguardo realistico e sempre attento, e di un linguaggio quasi fotografico per raccontare storie spesso piccole, ma incantevoli.

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