Coriandoli è il nuovo disco de la bestia CARENNE, e si tratta di un disco “nuovo” da molti punti di vista, soprattutto da quello delle scelte sonore (qui la recensione). Tra i coriandoli sparsi dalla bestia abbiamo cercato di inserire qualche domanda, a cui ci hanno risposto, tra una citazione shakespeariana, una galileiana e una gramsciana (oddio, più o meno).
Mi sembra che il disco sia figlio di una ricerca sonora particolare, più approfondita dei precedenti. Potete raccontare come nasce?
“Giulia sembrava destinata alla tristezza. Sebbene avesse una buona vita, che gli altri definivano felice, il suo animo restava cupo.” Pare invece che noi siamo destinati (o forse “ci destiniamo”) alla scomodità. Il nostro motore della ricerca è lo stare scomodi e a disagio. Il folk tzigano che ci ha dato i natali ci ha condotti troppo rapidamente da una kampina a una stanza in centro.
Tv e chaise longue stanno bene in un soggiorno, non hanno nulla a che fare con la musica. Ogni “maturità” è già sempre immatura un attimo dopo, sopratutto all’interno di un percorso vivo, in atto, in svolgersi. Durante la scorsa tournée, suonando tanto in lungo e in largo, ci siamo resi conto dell’adagio a cui ci aveva condotto quel canone. Il live, man mano, ha preso forma assecondando la nostra attitudine punk e da qui la rottura. Lo spettacolo che portavamo in giro per la presentazione dello scorso disco era tutt’altro rispetto a quello che avevamo registrato anni prima. Coriandoli doveva essere un nuovo disco sotto tutti questi aspetti: le esigenze, quelle di pancia, vanno accolte e rispettate. Un disco scomodo, una nuova maturità, una rediviva immaturità.
Era tutto sommato agevole definire “folk” il vostro album precedente, “Catacassc”. Invece qui siamo di fronte a un disco che prescinde dai generi perché ne utilizza molti diversi. Avete anche cambiato approccio compositivo?
No, l’approccio compositivo non è cambiato nella sua parte sostanziale. Certo, l’atteggiamento è stato diverso. Abbiamo cercato di pensare all’album nella sua interezza, guardandolo non soltanto come una raccolta di canzoni, ma con un’attenzione particolare alla totalità del lavoro. Come disse Galileo mangiando una fetta di torta, “dalla teoria alla pratica!”.
Per dirlo con una rosa, ci siamo dati come unico orizzonte quello delle nostre anime. La nostra è una band, un complesso, un gruppo. Non c’è chi compone, non c’è chi scrive. C’è solo chi smantella le proprie idee e quelle degli altri. “Tanta falce e tanto martello”, come disse Gramsci mangiando una torta. Procida, dove abbiamo arrangiato e registrato buona parte del disco, è una piccola isola nel golfo di Napoli ed è stata la nostra fucina. Due anni di empatia, animo e fegato. Forse, di tutto questo c’era molto meno negli scorsi album.
Il concept di fondo parla, in maniera piuttosto vasta, della prigionia. Perché questa tematica vi ha ispirato tanto da farci un disco?
Coriandoli, come ogni disco, parla di potere e la prigionia è solo una sua declinazione. A volte nella composizione accade che il tema generale si agglutini attorno al disco in maniera quasi esoterica. La vita è probabilmente nata in modo casuale e il caso gioca un ruolo fin troppo sottovalutato dai noi uomini di intelletto razionale che crediamo di chiudere tutto in un significato. Capita spesso di scrivere più canzoni, apparentemente molto diverse, che però scaturiscono dallo stesso groviglio, espresso solo in maniera diversa. Poi ci si allontana un attimo e col distacco si coglie un generale sconosciuto all’inizio.
La bestia CARENNE e l’ipertrofia emotiva
Come nasce “Le gambe belle”, a mio parere uno dei vertici del disco?
Nasce dalle gambe di un’amica e dal loro candore. Dall’ipertrofia emotiva reazione all’etica di genere. “Fino a dove” è l’epiteto della nostra generazione.
Potete raccontare la strumentazione principale che avete utilizzato per suonare in questo disco?
Quasi tutta roba fatta in casa, non per vezzo ma per reale necessità. I nostri strumenti della vita, qualche microfono prestato e l’eredità di un vecchio studio smantellato. Tastiere raccattate in cantina o comprate a buon prezzo. Stanze giuste per registrare messe a disposizione dai nostri amici. Missaggio e post-produzione in the box, ovvero fatti al computer in una stanzetta con due casse Yamaha HS50N, un macbook pro anzianotto ma tirato a lucido con un po’ di ram e un hard disk a stato solido.
Poi c’è l’elettronica. Anche qui molti sintetizzatori in prestito e un Korg Mother 32 che custodiamo al riparo da occhi indiscreti. Microfoni a contatto DIY, qualche molla, qualche placca di ferro, bacchette, tubi e sopratutto tante registrazioni ambientali. Onde sinusoidali affettate ad hoc, Supercollider (un freeware), pazienza e fronti calde. Latte di soia e qualche farmaco psicotropo da prescrizione medica. Un po’ di droga.
E dopo un caldo saluto agli amici della Narcotici che ci seguono sempre, arriviamo a chiedere: chi è o chi sono gli artisti indipendenti italiani che stimate di più in questo momento e perché?
Difficile a partire da semplici considerazioni artistiche. Le dinamiche produttive del mercato musicale hanno sterilizzato idee e artisti. Di musica indipendente, assoluta, ce n’è pochissima. In molti, consapevolmente o da fanciullini, si riproducono solo in quanto rigurgiti di mercato. Di musica bella e bellissima, per fortuna e nonostante tutto, se ne trova tanta. Molta però proprio nei sistemi dove non ci riconosciamo in termini di dinamiche di produzione, nel circuito maggioritario e di massa.
Quello che proprio non riusciamo a digerire sono le cose brutte e, peggio, quelle che si spacciano per alternative e indipendenti. La musica indie, i funerali della quale sono alle porte, riproduce nel cerchio concentrico dei pezzenti dinamiche similissime alle grandi produzioni. Tra Gabbani e Lo Stato Sociale c’è poca differenza, poca tra Pausini e Levante se non fosse che gli ultimi affogano in un contesto lavorativo da call center.
Da qui un delirio di nomi, a tonnellate. Chi un tempo ascoltava Gigi D’Alessio un po’ se ne vergognava. Sapeva di commettere qualcosa di atroce. Oggi invece siamo fieri della brutta musica che assorbiamo e ci sentiamo paladini della delicatezza e della ricerca. Il mercato ci ha mangiato cominciando dalla testa. A seguire il classico sfruttamento dell’uomo, del lavoro e delle idee. Lo stereotipo, la ripetizione idiota, il discorso qualunque.
Per questa ragione ci va di segnalare solo 4 produzioni italiane.
– Toni Bruna, Formigole
– Giovanni Truppi, Il mondo è come te lo metti in testa
– Iosonouncane, La macarena su Roma
– Edda, Stavolta come mi ammazzerai