Presente la canzone “Inch’Allah” firmata dall’italo-belga Salvatore Adamo negli anni Sessanta? No? Pazienza. Tanto non c’entra assolutamente niente con Inshallah, il nuovo disco di Anansi, freschissimo di pubblicazione.

Anansi è ormai uno dei nomi importanti della “nuova musica italiana”, ammesso che esista una realtà corrispondente a questa definizione: un elenco quasi inifito di collaborazioni, la militanza accanto a Roy Paci, perfino un Sanremo, e due dischi alle spalle.

Il terzo è appunto “Inshallah”, un album maturo e molto completo, in cui si affiancano svariati generi più o meno tutti sotto il colore black, con nuove collaborazioni di alto livello, da Ghemon allo Gnu Quartet, nonché numerosi strumentisti italiani di valore.

Si comincia con il passo felpato di Cose che non dico, con un testo che sottolinea l’apatia e un tappeto sonoro molto moderato ma ben tessuto. Quando si propende per l’hip hop, è nella sua versione più morbida e non troppo “confrontational”.

La title track Inshallah è religiosa soltanto in senso lato, ancora a passo morbido e ancora con intermezzi rap firmati da Ghemon che si incastrano a perfezione con la costruzione del pezzo.

Mai dire mai affronta un locus che sta diventando comune: la descrizione della aspirante starlette diventata ragazza facile e dei suoi sinuosi movimenti nella società contemporanea. I suoni, appropriati, sono molto più urban in questo caso.

Oramai è puro funky con un piacevole retrogusto di Ben Harper, e si calpesta più o meno lo stesso territorio con Un quarto di un quarto d’ora, ma su un testo divertente e malandrino il giusto. Preferisco il blues è un’escursione nel blues (appunto) guidata da una chitarra piuttosto scintillante.

Portami via di qua è sommessa e sentimentale, colpisce per semplicità e anche perché non si vergogna di essere “tradizionale”. Si percorrono territori diversi e più sensuali con Il gioco, intrisa nel black e negli anni Settanta.

Da lontano torna ad avere commercio con il dub e con l’hip hop, tra effetti e storie di letto e di sentimento finite non benissimo. Curiosa la scelta del canto che sembra da muezzin, ma di cui si riconoscono le ascendenze partenopee.

Meniña si intrattiene invece con ritmi latini e con una notevole ricchezza sonora. Uno è fra i pezzi più apertamente “politici” del disco, con un testo lucido tra classici ritmi reggae.

La Ninna nanna che arriva di seguito non è proprio il classico pezzo dedicato ai bimbi, piuttosto una riflessione a più vasto campo su passato, futuro e tutto il resto.

Si chiude con Un’isola, che gira intorno al concetto “No man is an island”, citazione di John Donne. Dal punto di vista musicale si sconfina nel rock, confermando le doti di versatilità che si apprezzano in tutto l’album.

Il disco presenta tante facce quante sono le canzoni, con cambi continui di atmosfera, con una grande cura degli arrangiamenti e con storie piene di senso.

Le tredici tracce sono la conferma di una crescita ormai giunta a un livello molto alto e decisamente degno di attenzione.

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