Un omaggio è un omaggio, a prescindere dal modo e dalla provenienza: Giovanni Succi (Bachi da Pietra) tributa un dono in forma di lp a Paolo Conte.

Certo c’è distanza tra Succi e l’avvocato: non tanto fisica, visto che il primo è di Nizza Monferrato, l’altro di Asti, quanto musicale. Ma Lampi per Macachi lascia intuire come si tratti di una distanza facile da superare.

Un gelato al limon apre il discorso, conservando l’andamento stralunato dell’originale, nonostante gli arricchimenti sonori che passano da un inizio minimal a uno sbocco piuttosto rumoroso.

C’è la chitarra elettrica all’interno di Uomo camion, là dove di solito nei dischi di Conte si trova il pianoforte, mentre La fisarmonica di Stradella attraversa deserti elettrificati e panorami poco terrestri.

Come mi vuoi, con la voce di Francesca Amati dei Comaneci, è tra i pezzi più intensi del disco, anche se il banjo aggiunge un po’ di ironia al breve percorso di una canzone intima.

C’è invece aggressività repressa in un Diavolo rosso sostanzialmente rock con qualche propaggine noise, e con l’aranciata della canzone che diventa piuttosto acida.

L’incantatrice si incarna in paesaggi western e compie i propri trucchi in un’atmosfera alla Morricone, con un drumming attento e le note elettriche che risuonano in un nuovo deserto.

Classico tra i classici, Bartali conserva parte dell’atmosfera jazzy dell’originale, ma la curva che prende il pezzo è più vicina al “naso triste” che all’ “italiano allegro”.

Fortemente waitsiana la versione di Questa sporca vita, soltanto voce e chitarra, prima di chiudere con un assaggio di una Via con me completamente stravolta e consumata dalla catena di montaggio.

E’ tutto un complesso di cose che fa sì che questo disco meriti di essere ascoltato, riascoltato, dissezionato, decostruito e ricostruito. Perché la materia trattata, le canzoni di Conte, meritano sempre un tributo, una cover, un omaggio.

Ma anche perché Succi ne propone una versione profondamente intrisa di se stesso, uno spettacolo di arte varia che dimostra come si debba fare una propria versione di un classico: buttandolo in aria, raccogliendone le pagine, leggendoci dentro un po’ di se stessi.