La recensione: “More lovely and more temperate”, Johann Sebastian Punk
Il Rock è eccesso, o almeno lo è stato: eccesso di depressione negli anni Novanta, eccesso di lustrini negli anni Ottanta, eccesso di tutto negli anni Settanta (e probabilmente eccesso di brillantina negli anni Sessanta e Cinquanta, ma si divaga).
Interpreta alla perfezione il discorso, anche dal punto di vista dell’impatto mediatico, l’esordio degli Johann Sebastian Punk (“gli” e non “i” perché la J va pronunciata alla tedesca, come nel nome di Bach, e non all’inglese).
C’è stipato parecchio, all’interno di More lovely and more temperate, album che cita un verso di Shakespeare nel titolo, e cita tonnellate di band e cantanti, per lo più piuttosto british, nell’arco di undici tracce a volte barbare, ma non prive d’ingegno.
Si parte con Vernal equinox, molto soft e confinante quasi con certo easy listening. Gli strumenti si sedimentano per strati successivi, ma l’andamento resta morbido, fino all’esplosione finale.
Jesus Crust Baked presenta tastiere scintillanti e movimenti morbidi. Si parla di Babbo Natale con toni da commedia di Tim Burton, c’è una mezza citazione da Cindy Lauper: l’andamento delle canzoni raramente è rettilineo, e c’è voglia di esagerare con l’arrangiamento e gli effetti.
Arriva poi Yes, I miss the Ramones: una dichiarazione d’intenti anche se le sonorità del pezzo e dell’album sono molto poco Ramones (al limite il cantato, qui e là). Anzi sembra un pezzo di Rocky Horror Picture Show: di sicuro non manca la fantasia e la teatralità.
Barber’s shop ha un mood più malinconico e meno giocoso, ma non rinuncia a paradossi, teatro e ragnatele sul soffitto. Sul finale si sconfina abbastanza chiaramente nel prog con virtuosismi tastieristici assortiti.
E se Intermezzo è un intermezzo, in The well-shorn Moufflon Paradox i panorami delineati sono più vicini a quelli dello space-rock, anche se dopo l’inizio l’atmosfera cambia e ci si trova in territori rock più convenzionali.
Ma la sorpresa nel disco è sempre dietro l’angolo. Il contrasto e il barocco sono chiaramente una parte fondamentale. Si flotta poi su dissonanze nonsense, seguite da un finale lacrimevole.
White, con lunga intro strumentale il pezzo si muove su toni più convenzionali e per una volta esce dal teatro dell’assurdo. E’ un pezzo rock un po’ alla maniera dei Cure di Wish, oscurità comprese.
Rainy spell dimostra che la follia non è scomparsa e torna molto in fretta. Qui si oscilla tra Suede, Pulp, Bowie. Anche in Strontium la buriana teatrale e stupefacente a tutti i costi sembra un po’ passata ed emerge una sostanza molto più “inquadrata”, ma con svolazzi di fantasia, tra voce filtrata e chitarra veemente.
Attenzione: sono possibili tracce di glam rock (Bowie, Bolan), brit pop (più Suede che Oasis), progressive (ma anni Ottanta, tipo Marillion), new wave (Cure, Depeche Mode, Joy Division), punk (poco, comunque americano, e di quello confinante con il glam, come i New York Dolls), Pulp (ma anche Pulp Fiction, volendo).
La seconda parte del disco è meno barocca della prima, e anche la voglia di “épater le burgeois” scema un po’. Ma c’è sostanza anche negli ultimi quattro o cinque pezzi del disco, e viene la curiosità di vedere come tutto questo è reso dal vivo.
Conoscendo un po’ la carriera di Enrico Ruggeri (si parla di carriera musicale, ovviamente), non è difficile capire perché li abbia appoggiati fin dall’inizio. Né perché possano piacere anche a una platea eterogenea, purché disposta non solo a perdorarne, ma ad amarne eccessi e uscite dal tracciato. Una botta di fantasia non ha mai ammazzato nessuno, anzi.