La recensione: “Morning Phase”, Beck
Esce oggi ed è già ascoltabile e acquistabile ovunque “Morning Phase”, il nuovo disco di Beck. Vent’anni dopo “Loser”, il songwriter losangelino è evidentemente cresciuto, ha toccato altre tappe.
L’adolescente pessimista e imprevedibile ha lasciato il passo a un cantautore riflessivo, almeno di tanto in tanto.
Il mood del disco è piuttosto tranquillo, ma non necessariamente malinconico. Rispetto a “Sea Change”, il disco a cui è stato subito accostato, qui si nota una tendenza a comporre per orchestra, piuttosto che per strumento singolo. Non è un disco “divertente”, come potevano essere svariati episodi del passato, tipo “Midnite Vultures”.
Il fatto che sia un disco riflessivo non implica nessuna difficoltà di ascolto: anzi scorre via piacevole, senza dosi eccessive di impegno. Sembra che Beck sia alla ricerca di spazi molto vasti dove far risuonare la propria voce e i propri strumenti, e sembra anche che si sia voluto (ancora una volta) liberare di alcuni orpelli inutili.
Si parte da un’inconsueta intro strumentale da 40 secondi seguita da “Morning“, dove la chitarra acustica si adatta a un ritmo lento, adatto al “mattino” annunciato nel titolo (almeno per chi se lo può permettere). In “Heart is a drum” a tenere il ritmo è invece il pianoforte, in un esercizio piuttosto inconsueto per Beck. Ma non è solo: ci sono tastiere e arpeggi, chitarre e acustica varia. Si parla di chitarra acustica e di movimento medio lento anche per “Say goodbye“, che procede per onde successive.
“Blue Moon” è il singolo (ascoltabile qui), ed è canzone che attraversa diverse fasi. C’è un arpeggio di chitarra acustica quasi country accompagnato da percussioni molto sonore, Beck canta alto, accompagnato dai cori. La canzone è quasi eterea, ma è tenuta a terra dalla ritmica. C’è poi “Unforgiven“, che apre spaziale, ma muove un ritmo quasi blues. Voce con molta eco, altro pezzo molto pensoso.
In “Wave” si va di orchestrale esplicito, con archi molto cinematografici in apertura; forse un po’ inquietante, nel suo procedere lento e maestoso. “Don’t let it go” è un po’ più mossa della precedente: chitarra e voce aprono, poi altri strumenti si aggiungono man mano.
“Blackbird chain” gioca un po’ di tastiere e ha sonorità quasi anni Sessanta, almeno nel ritornello. Poi un minuto di “Phase“, praticamente una continuazione di “Wave”, come se si trattasse di una sinfonia su più movimenti nascosta tra le pieghe del disco. Quindi “Turn away“, quasi una pagina di spartito di Crosby, Stills & Nash strappata e riadattata ai tempi moderni.
“Country Down” ha un ritmo moderato, suoni country, mood sempre un po’ malinconico. “Waking light” ospita suoni di tastiera e intermezzi di batteria che provano ad accendere qualche scintilla in più.
In definitiva ci si trova di fronte a un disco moderato, malinconico senza essere cupo, come se la maturità avesse portato via un po’ di spensieratezza senza per questo togliere speranza. Le nostre preferite a un primo ascolto sono “Blackbird chain” e “Heart is a drum”.