La recensione: “Prezzo speciale”, Deian & Lorsoglabro
Era il 2009 quando Deian & Lorsoglabro facevano il loro esordio sulla distanza lunga dell’lp con “Omonimo”. Tantissimo tempo e tantissimo spazio dopo arriva “Prezzo speciale“, dieci tracce altrettanto non prive di intelligenza, poesia, senso e sentimento.
Di se stessi dicono: “Non sapremmo indicare influenze definite nella lavorazione del disco. Chi ha portato il kraut e chi l’elettronica, ma poi c’è sempre il fantasma di Syd Barrett a decretare cosa sia giusto e cosa no”.
In realtà ognuno ha portato tantissimo, si direbbe, perché si schizza agevoli dalle influenze elettroniche di “Hallopollo” alla chitarrina western di “Il possibile“, transitando per alcuni universi diversi.
Si parte con “Il fiume”, lenta e fluida, con un cantato sofferto che può richiamare alla mente qualcosa degli Sparklehorse: “Ti ricorderai di me/quando sarò nel mare?” Il finale è dominato dagli archi. Non è un modo “solare” per iniziare un disco che è tutt’altro che triste, ma è giusto mettere tutto in chiaro: astenersi perditempo.
“Prezzo speciale” è più viva e ha una dimensione quasi cantautoriale. L’attenzione ai particolari nel testo si sposa con un orizzonte sonoro volutamente scarno, che qui include anche qualche dissonanza di chitarra.
E bisogna essere pronti per accogliere “Avanguardia”: un dialogo con un ipotetico pubblico su quello che ci si deve aspettare e no dalla musica, dall’arte, dalle avanguardie, da Deian & Lorsoglabro. “Volevi qualche suono alla moda/Volevi poter dire: “Ho capito”. Ironia in forma seria o serierà di paradossi: quando l’autoreferenzialità può prendersi in giro da sola.
“Cono scomposto” (o “Conoscom’posto”) arriva subito per mettere qualche altro ingrediente: la musica e il cantato si muovono tra Franz Ferdinand e Xtc, e aprono un versante quasi pop. “Hallopollo” è il primo dei due pezzi strumentali: intro di percussioni, movimenti di basso, poi prende la forma di una normale jam, finché quello che si muove sul fondo fin dall’inizio prende definitivamente forma.
“Virtù reale” ha una struttura più convenzionale, con influenze simil-beatlesiane. “Incubo” sposta l’interesse sul testo: un paio di minuti di pop chiaro e frizzante, imprevedibile a metà de “Il fiume”. Chiudono “Preghiera” e “Cani Jah“, altro pezzo strumentale di andamento medio-lento che incalza in modo progressivo.
Il disco è molto ben riuscito, anche se la seconda parte sembre cedere un po’ rispetto al livello della prima. Non perché si debba per forza trovare qualche espediente per stupire in ogni canzone, ma perché quando si è creata una certa aspettativa, l’ascoltatore si vizia e vuole sempre di più. E ha sempre ragione, tra l’altro.
Ma nel complesso siamo di fronte a un lavoro di spessore assoluto, che si parli di suoni, di testi, di produzione e di arrangiamento, che merita di uscire dalla propria nicchia e di fermentare in tutta libertà, all’aperto.