Provengono dalla stessa cittadina in provincia di Modena di Nek, cioè Sassuolo. E questo lo diciamo solo per fare dello spirito, perché per fortuna le analogie finiscono qui: i My Speaking Shoes sono un quartetto post (post?) hardcore con una certa qual furia distruttiva nelle vene.
La band pubblica il proprio secondo disco, Siamo mai stati, e opta per l’italiano dopo che invece nell’esordio del 2012 Holy Stuff i testi erano stati scritti in inglese.
Si parte subito piuttosto acidini con Estatina, costruita su un atteggiamento hardcore, un drumming piuttosto ossessivo e la voce di Camilla Andreani che si infiamma in tempi brevissimi.
Baba Yaga non è una canzone ma un infarto: un minuto e quarantadue di assalti all’arma bianca e di urla belluine, probabilmente causati da un incantesimo della strega di origine russa cui il brano è dedicato.
Ci si placa in parte con Calci, che orienta la bussola in zone più vicine al rock appenninico (CSI, Ustmamò), ma con qualche artiglio punk in più.
Il livello di impatto sonoro non cala con La persona che conta di più è sempre quella che non c’è, dove però il sound procede a ondate successive.
Fluidi i movimenti di Siamo mai stati, la title track, che si risolve in uno strumentale da poco più di due minuti che non risolve l’enigma su che cosa o chi siamo mai stati, o siano mai stati i My Speaking Shoes.
Sirene torna ad afferrare alla gola, con una sezione ritmica indiavolata e la voce di Camilla così poco tranquilla. Non che si recuperi briciole di tranquillità in Figu (diminutivo per “figurine”) che assalta con atteggiamento chiaramente punk/hardcore per tutta la durata del brano.
Così la melodia e la dolcezza sulla quale si avvia Fondo arriva come una sorpresa; e anche se i ritmi si alzano e il sound si indurisce, la voce di Camilla prosegue in modo meno tagliente rispetto agli episodi precedenti, mostrando una versatilità cospicua.
Tagli, che segue, ha un andamento piuttosto simile, con un cantato particolarmente melodico sul quale si innestano prima una robusta linea di basso e poi un ritmo quasi marziale.
Le mani uguali è un pezzo piuttosto veemente seppur non suonato a tutta velocità, ma nella seconda parte del brano il volume dell’intensità si alza parecchio, finché non si arriva a un finale con influenze dub piuttosto sorprendente.
La schiuma afferra alla gola per un’ultima volta, con percussioni serratissime e un percorso che arriva in fondo senza quasi prendersi mai una pausa.
C’è parecchio furore nel disco, ma non bisogna equivocare: non c’è soltanto energia, passione, sangue bollente. I My Speaking Shoes mostrano di aver compreso come gestire la rabbia, lasciandola scaricare quando è il caso.
La band dà prova di poter ampliare anche ulteriormente la palette dei colori che può utilizzare, perciò siamo curiosi di osservare le future evoluzioni nei prossimi lavori.