Dopo molte traversie arriva finalmente l’ora dell’esordio di Shiva Bakta, il 35enne italoargentino Lidio Chiericoni da La Spezia, accompagnato in trio da Simone Cavina, Federico Fantuz e numerosi altri amici.
Ed è un esordio sapiente: “Third” si chiama così perché in teoria è il terzo della carriera, benché sia il primo uscito ufficialmente. “Questo disco – racconta Chiericoni – era già pronto a dicembre 2010. Erano 2 anni che scrivevo ininterrottamente, avevo fatto uscire senza pensarci una raccoltona di 13 demo registrati male (Shiva Bakta Homerec Album) in download gratuito, e avevo scartato altri 14 pezzi che dovevano essere il secondo disco.
Questo infatti, nella mia testa, è il terzo disco. Ma è il primo”
Al di là degli ordinali, l’album porta in dote anche esperienze musicali importanti, come un concerto al Mi Ami del 2010, come un tour come spalla degli Yuppie Flu, come una raffinatezza di scrittura che non trascura i particolari e che disegna percorsi morbidi e sognanti senza perdere la tensione giusta.
Il disco centra la misura giusta, come uno che riempie il bicchiere fino alla tacca più corretta: né troppo, né troppo poco. Le influenze “dichiarate” vanno dai Jefferson Airplane (e un pizzico di psichedelia c’è, ma senza che si attacchi troppo ai denti) fino a Belle & Sebastian. Noi ci abbiamo letto anche qualche spuntatina di Badly Drawn Boy, qualche idea indie folk, qualche strizzatina d’occhio ai Beatles (come per tutti, del resto).
Si parte con “Mushroom“, e si parte psichedelici fin da subito, giusto per non sbagliare. Ma il giro acustico è semplice e potente, il pezzo è breve e piuttosto elettrico, introduce al disco con un’atmosfera tranquilla e pensosa.
“Smart drug” ha sonorità pop e un’allegria diffusa, che nonostante il titolo non è artificiale (ma del resto il testo dice: “you’re my only smart drug”) . “Dog” ha un ritmo molto incalzante e atmosfera più cupa, senza diventare mai troppo tetra.
Tra i pezzi più interessanti, “My weakness” torna ad atmosfere più morbide e anche sognanti. E’ forse il pezzo più “orecchiabile” del disco e fa da preludio a “Baktism”: una suite che si divide in due parti, rispettivamente da circa 3 e 5 minuti.
La prima parte è una canzone pop a tutti gli effetti, veloce e tirata il giusto. La seconda è più riflessiva. Le sensazioni sono stimolate dagli strumenti acustici che vanno verso un crescendo tranquillo.
C’è poi “You should be happy”, un allegretto andante con spunti di piacevolezza, seguita da “Magic Sun“, che a dispetto del titolo ottimista, non è la canzone più allegra del disco, anzi le svisate di chitarra che stanno tra U2 e Waterboys insinuano qualche linea di inquietudine in un pezzo ben costruito.
“Sunday turns into heaven” parte con un risvoltino di chitarra e finisce tra chiacchiere e pianoforte, attraversando atmosfere differenti, tra cui un Neil Young che occhieggia qui e là.
“Homeless” è un bel pezzo intenso e incalzante. Il ritmo è alto, la vocalità sempre ben temperata. “Goodbye” saluta tutti con un ritmo morbido in punta di sei corde, anche la sezione ritmica affianca senza intralciare il percorso, c’è un po’ di tristezza, ma in fondo è soltanto un arrivederci.