Si chiama Tre il nuovo disco degli Ismael, band reggiana che fa capo allo scrittore Sandro Campani. Campani, tre libri pubblicati, di cui l’ultimo, “Terra nera”, uscito per Rizzoli nel 2013, ha radunato Giulia Manenti (chitarra elettrica), Barbara Morini (basso), Piwy Del Villano (sax, clarinetto, cori) e Luigi Del Villano (batteria) per una rock band con ovvia attenzione al contenuto dei testi.
Il risultato può essere ora aspro ora più morbido, si rifà alla canzone d’autore come al rock delle band italiane più nobili, dagli anni Novanta in poi, e si configura come un punto di vista interessante sulla new wave italiana.
Palinka apre il discorso con un ritmo alto e un testo già denso di propositi letterari, per lo più mantenuti, coniugati con una musica piuttosto astiosa e insistente. L’idea di fondo è quella del rock d’autore, che però non chiude le porte ad altro tipo di esperienze.
La Canzone della volpe procede per sentieri un po’ più rarefatti, ma non meno minacciosi. Tra doppi sensi sessuali (ovviamente distesi su adeguato giaciglio letterario) e aperture improvvise il pezzo si consuma e si concentra.
C’è poi Le tre, in cui l’umore è più malinconico. Lo schema di base è voce+chitarra elettrica, con gli altri strumenti a sommarsi ma senza invadere il proscenio.
Andiamo cambia ritmo in maniera vistosa, acquista in rumore, trova il coraggio per essere più aggressiva. Canzone del cigno rallenta di nuovo e offre una melodia scarna ma efficace. Le fiabe raccontate nel disco travalicano spesso i limiti dell’onirico, senza fermarsi di fronte all’incomprensibile.
Ecco poi Se non a te, altro racconto su ritmi veloci, con sonorità vagamente western su cui il cantato si fa incisivo e quasi cattivo. Canzone per quello si permette escursioni sonore più fantasiose e fuori dagli schemi.
La Canzone del bisonte fa saltare gli schemi medesimi, appoggiandosi solidamente sulla tradizione acustica della canzone d’autore italiana, quella di Guccini e De Gregori, per capirsi.
Dopo il lungo intermezzo morbido strumentale del Tema di Irene, si torna all’elettricità piena di S’arrampicavano. Si parla ancora di animali e di storie senza tempo, tra suoni apertamente rock, seppur su struttura volutamente scarna.
Si chiude vicino allo psichedelico, con il basso insistente di San Giovanni di Querciola, dedicato a una frazione di quell’Appennino reggiano che è già piuttosto caro alla musica italiana (vedi capitolo CCCP/CSI).
Detto che non sembra che le energie migliori della band siano dedicate alla scelta dei titoli dei dischi (questo, il terzo disco, si chiama “Tre”; il primo si chiamava “Uno” e il secondo? Esatto, “Due”). Detto che il rock d’autore italiano ha già espresso molte ottime band.
Detto tutto questo non si può che apprezzare un disco convincente dalla prima all’ultima traccia, ricco di atmosfera e di suggestione, a volte roboante, a volte doloroso, a volte pungente. Sempre onesto.