[lessness]: intervista e recensione
Never Was But Grey è il nuovo album di [lessness], progetto solista di Luigi Segnana, ex membro di Casa Del Mirto. Il titolo del disco è tratto da una frase del racconto di Samuel Beckett “lessness”.
Mentre il protagonista del racconto narra la propria storia in un loop emotivo senza fine, bloccato nel ritorno perpetuo dei propri errori e dei propri ricordi, dove il grigio esalta l’immobilità emotiva, nel disco il grigio rappresenta un risveglio dal buio, da una nottata difficile se si vuole.
Dopo aver fondato l’etichetta indipendente Mashhh! Records e collaborato alla produzione di band tra le quali Death by Pleasure, Dance for Burgess, Cristalli Liquidi e terminato il suo percorso come bassista e produttore della band Casa del Mirto, Luigi Segnana si dedica a un nuovo progetto solista.
Le sonorità di questo nuovo percorso nascono dall’oscurità e dalla notte e sono incentrate sul suono del basso, strumento dal quale nascono i riff su cui poggiano le canzoni e il resto dell’arrangiamento con synth e loop di batteria in evidenza.
Visto il successo degli ep e dei singoli precedenti (e viste le tue esperienze pregresse) direi che si è creata una certa hype in vista del tuo disco. Ma tu che cosa ti aspettavi da “Never Was But Grey”, prima di metterci mano?
Che cos’è il successo? È fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità d’esecuzione…no questo era un altro film… però varrebbe la pena chiedersi cosa sia effettivamente il successo e da cosa dipenda. Non avevo aspettative per l’ep “The Night Has Gone To War” come non ho aspettative per “Never Was But Grey”, sono lavori usciti di getto come le canzoni che li compongono.
Come spesso capita nella vita quando decidi di chiudere un capitolo, questo ti si riversa addosso con tutta la sua energia beffarda, soprattutto per una persona come me che vive di sensazioni più che di programmazioni: avevo deciso di chiudere con la musica, dopo Casa del Mirto, e mi sono ritrovato a scrivere canzoni come mai prima, quasi per caso giochicchiando con il basso, a casa sul mio prezioso divano con un gatto vicino che mi guardava poco convinto (come si evince dalla copertina del disco).
Da lì, poi, decidere di pubblicare un ep e poi un disco è stato piuttosto semplice, comunque senza particolari aspettative, conscio del fatto che non avrei proposto musica di ampia fruibilità, specialmente in questo momento storico in cui il cantato in inglese, su arrangiamenti piuttosto scuri, malinconici, in Italia, non ruba la scena. È una forma di catarsi un modo per lasciare sfogare il mio lato grigio scuro.
Al di là della citazione beckettiana, mi sembra che il disco sia totalmente tuffato nella new wave a livello sonoro. Come vedi la riscoperta (ammesso che di riscoperta si possa parlare) di questo tipo di sonorità da parte di molti gruppi italiani contemporanei?
Il disco si nutre in maniera totale e assoluta di new wave, pur rielaborandola in forme canzoni quasi classiche, per certi versi. Non so se si possa parlare di riscoperta della new wave, non ho abbastanza conoscenza di quello che si aggira lungo lo Stivale, so solo che se ci fossero più gruppi in giro come Be Forest, Soviet Soviet, Makai o magari meno conosciuti ma scoperti recentemente da me come Hesanobody e We Are Waves, non potrei che esserne più felice, perché è un genere che affonda le sue radici nell’introspezione, nel pensiero, nella ricerca della consapevolezza di sé all’interno di contesti complessi, cosa di cui c’è molto bisogno, al momento, dal mio punto di vista.
Mi incuriosisce particolarmente “Seven Seals”: come nasce?
Seven Seals, come quasi tutte le canzoni dell’album, nasce da un incipit e da un assolo di basso sui quali poi è stata costruita tutta la canzone. È una delle prime canzoni scritte per questo disco, una delle poche che si è salvata dalla autocensura lessnessiana.
Musicalmente richiama per qualche ragione i Depeche Mode, e non chiedetemi perché ma, secondo me, sarebbe perfetta, visivamente, in accompagnamento al cortometraggio sul cibo di Jan Švankmajer, in particolare l’autoantropofagismo di Dinner, di cui consiglio caldamente la visione.
Liricamente tratta dell’annullamento di sé e delle proprie ambizioni, seppellirsi vivi in un luogo dove non esista più il concetto di giusto e sbagliato, dove non ci sia più trambusto e confusione, dove tutto è chiaro e non ci sia più niente da dirsi, solo silenzio.
C’è chi ha scritto di te: “Stratificato e complesso, non ha nulla da invidiare al migliore Jon Hopkins”. Che effetto ti fanno certi paragoni?
A chi l’ha detto pago una cena.*
A parte ciò, fa ovviamente piacere che qualcuno scomodi certi arditi paragoni per parlare della mia musica e ho sempre stimato chi ha il dono dell’iperbole. Temo però, purtroppo, che il migliore (anche il peggiore) John Hopkins sia anni luce di distanza da me (sì, l’anno luce misura la distanza non il tempo, guardo anch’io The Big Bang Theory che credete?).
*da Burger King, che non si monti la testa.
Tre cose/persone che ti piacciono e tre che non ti piacciono della musica dell’anno 2019.
Il 2019 è appena iniziato, mi risulta difficile rispondere, però posso dire che apprezzo il fermento che c’è attorno a certa nuova musica italiana (era il caso di svecchiare un po’ l’ambiente) pur non amando particolarmente certa nuova musica italiana.
Mi piace che Robert Smith abbia ancora voglia di suonare e fare nuovi dischi, anche se non ho amato molto gli ultimi suoi dischi. Mi piace che ci siano un sacco di live interessanti in programma in giro, anche se non mi è mai piaciuto il fatto che ci sia sempre stato così poco spazio per generi diversi da quelli che vanno per la maggiore.
Ecco, da buon democristiano penso di aver risposto,comunque, con un abile camouflage, alla domanda ☺.
[lessness] traccia per traccia
Elettronica minimale e suoni piccoli introducono Wait, la traccia d’apertura del disco, che riesce a essere calda grazie a un giro di chitarra insistito e soprattutto grazie alla voce, che prende percorsi alti e drammatici nel finale.
Percorsi del tutto diversi quelli di Away, che accelera abbastanza per tuffarsi a capofitto nella new wave (lato Depeche), un’onda oscura ma anche morbida, con sassolini che rotolano lontano.
Would You…? è il singolo, sempre ammantato di new wave, ma anche immerso in voci contrastantie in un ritmo da dance triste indubbiamente affascinante.
Ecco che si arriva a V., che torna a correre un po’ sul morbido, ma includendo sempre qualche idea appuntita, qualche vetro rotto qui e là.
La malinconia si fa strada, anche in modi ieratici “per colpa” di suoni d’organo, in How Should We Love This Fever.
Le percussioni prendono corpo e campo in Seven Seals, che vede passare i fantasmi dei Joy Division (e di Bergman) prima di inseguire una voce sempre morbida e versatile.
24/7 si dimostra frenetica quanto a ritmi, con contrasti di luce piuttosto forti. Anche Deconstruction decostruisce a velocità alte e talvolta abbaglianti, come una corsa notturna in un tunnel.
Si torna a giocare con i numeri in 2:21, ma anche con vocaboli ripetuti e messi in ordine per lasciare emerge il lavoro di un basso acido e malinconico.
Oh, me, i suoi battiti marcati e i suoi cori angelici chiudono il disco, facendosi strada quasi con fatica una battuta per volta.
Disco ben costruito e ricco di attenzione ai dettagli, quello di [lessness]. Le canzoni si susseguono vertiginose, quasi senza lasciare respiro, gettando l’ascoltatore in un mood corposo e in suoni che non si vergognano né delle proprie ascendenze, né della propria malinconia di fondo.