Si chiama Rococò il quarto e ultimo (in ordine di tempo) lavoro dei Dadamatto, ormai fra i nomi importanti dell’indie italiano (qui la nostra recensione). Ecco la nostra intervista con la band.
Potete raccontare come nasce e come si sviluppa “Rococò”? Quali differenze ci sono state nella lavorazione rispetto ai dischi precedenti?
Rococò nasce dal nostro progresso, dalla saturazione di un epoca, dalla distanza dei chilometri e da una strumentazione diversa in sala prove.
Si sviluppa nell’insieme delle esperienze raccolte e nella ricerca di un ordine nella varietà delle influenze, verso una morbidezza mattutina. Abbiamo prodotto il disco insieme a Marco Caldera che è riuscito elegantemente a imbrigliare le forze a favore di un colore rotondo e indolente adatto a gestire l’equilibrio dinamico delle forme scomposte.
Potete spiegare titolo e copertina? Vi affascina davvero l’omonimo periodo artistico oppure è stato soltanto uno spunto?
Abbiamo una sorta di attrazione e repulsione nei confronti del Rococò e del prog, ma questi elementi si sono rivelati spontaneamente e noi abbiamo dato loro la possibilità di esprimersi, assecondandoli e seguendoli da distante.
Abbiamo permesso che giocassero con noi nello sfarzo della natura e dell’erotismo. Non siamo grandi patiti di arte però Rococò è giusto per il periodo di decadenza che stiamo vivendo. La caduta di una nobiltà d’animo a favore di una nuova classe sociale emergente, quella immaginaria della fantasia.
La copertina aderisce sapientemente a questo immaginario perchè unisce vari linguaggi in un ordine estetico che centra il valore del disco. È stata realizzata dall’ottima Letizia Cesarini (in arte Maria Antonietta).
Mi sembra che l’approccio di alcune canzoni cerchi di mettere insieme due opposti musicali: orchestrazioni di vaste proporzioni, quasi progressive, e un’aggressività e una velocità simil-punk. Vi riconoscete in ispirazioni così opposte?
Sì ci riconosciamo. Sono le due nature che in questo disco si sono incontrate. La punk è quella che coltiviamo da anni e che ci accompagna fedele in quanto linfa naturale del gruppo.
L’altra più sperimentale cambia forma e sostanza a seconda dell’album e di quello che si vuole esprimere. In quest’ultimo caso ha preso le sembianze dello zio prog. Nel prossimo verrà decapitato.
“America” vede la partecipazione di Emidio Clementi: come è nata la sua collaborazione con voi e come è nata la canzone?
La canzone è nata da un ritornello Modugnesco e da una strofa ipnotico ossessiva. Emidio e i Massimo Volume li abbiamo conosciuti aprendo diversi loro concerti.
La strofa evocava un parlato concreto e incisivo, il ritornello parlava di America così non abbiamo potuto fare altro che proporla a Emidio e lui, con nostra somma gioia, ha accettato scrivendo e interpretando la prima strofa.
“I cinque dell’Ave Maria” mi sembra uno dei brani più curiosi del disco, almeno a livello di testo: come nasce e da quali fonti di ispirazione?
Brescia è la città nella quale abbiamo registrato il disco; ci abbiamo passato molto tempo. Questo luogo ci ha ispirato la storia di cinque ragazzi scomparsi da alcuni giorni.
Nessuno sa dove siano. I vicini di casa si interrogano su dove possano essere. Per lo più sono chiacchiere da bar, pettegolezzi. In realtà nessuno si interessa veramente delle loro sorti. Si fanno solo strane congetture su cosa stiano vivendo.
I protagonisti di questa canzone sono talmente misteriosi che nemmeno noi siamo riusciti a immaginarceli. Per questo motivo vorremmo essere Dio, per poterli guardare dall’alto e scoprire chi sono veramente.