Da Genova al mondo: gli Ex-Otago non si sono montati la testa (a prescindere da quello che ci mettono sopra), ma hanno affrontato svariate esperienze dall’uscita di “Mezze stagioni”.

Esperienze che sono inevitabilmente confluite in un disco, “In capo al mondo“, che ha suoni e approcci diversi rispetto a quanto prodotto in precedenza. Abbiamo intervistato Simone Bertuccini.

 A quanto ho capito, i tre anni dopo “Mezze stagioni” sono stati molto intensi. Che cosa è successo alla band e a che punto vi siete trovati, prima di iniziare a lavorare a “In capo al mondo”?

Anni intensi che ci hanno inevitabilmente segnati, nel modo di vedere e vivere le cose di tutti i giorni, di riflesso nel nostro modo di scrivere musica. Abbiamo provato a mettere questi anni all’interno del disco sotto forma di canzoni, ciò che non ci è stato possibile aggiungere lo abbiamo messo nel libro Burrasca (cartaceo uscito per Habanero edizioni e digitale per Wannaboo), una lettura che aiuterà a comprendere meglio il disco e a conoscere gli Ex-Otago come persone al di fuori della musica.

Il disco ha preso forma alla Nina, un piccolo rifugio di montagna in Valle d’Aosta dove ci siamo ritirati per una settimana con il compito di entrare in profondità nelle canzoni e di noi stessi. Alla Nina ci siamo letteralmente sbottonati iniziando a scrivere, a suonare, a cantare e a vivere assieme 24 ore su 24.

Ritornati a Genova con un pugno di canzoni sull’hard disk e una bellissima esperienza in tasca, il disco ha continuato a evolversi fino alla versione finale che tutti possiamo finalmente ascoltare.

A un primo ascolto dell’album, mi sembra ci sia complessivamente una minore voglia di sdrammatizzare. Contagiati anche voi dalla generale depressione dei tempi o hanno influito le vicende personali?

E’ stato del tutto naturale. Abbiamo abbandonato certi aspetti più comici cercando di toglierci il vestito da “band demenziale” che qualcuno ancora ci credeva addosso, detto questo non credo però manchino le occasioni per strappare un sorriso all’ascoltatore. Sdrammatizzeremo molto durante il live, questo è assicurato.

Una costante mi sembra invece la voglia di scappare: da “Costa Rica” ad “Amico bianco” direi anzi che l’idea di salutare la compagnia sia sempre molto viva, come conferma anche il titolo e il tema generale dell’album…

La nostra idea di viaggio non deve essere intesa come “fuga” da qualche luogo o da qualcosa ma come una ricerca, esplorazione di nuovi posti, persone e abitudini possibili anche se sconosciute. Tutte queste cose le abbiamo immaginate in un ipotetico posto in capo al mondo che alla fine può trovarsi anche in soffitta o sotto una scarpa.

Avete scelto di limitare l’elettronica e di introdurre qualche strumento tradizionale. Da dove nasce questa scelta?

Abbiamo l’abitudine di fermare le bozze delle canzoni con una registrazione rapida fatta al computer, improvvisiamo le parti scegliendo dalla libreria dei suoni quello che più si adatta. Riascoltando i pezzi ci siamo accorti che suoni sintetici non combaciavano con il concept del disco e con le atmosfere che stavamo ricercando.

Da li è nato il bisogno di passare dalla chitarra acustica alla classica, inserire il charango, l’harmonium, il cajon, lo scacciapensieri, e sfruttare di più le parti di flauto e sax, conferendo alle canzoni un sound più caldo e “artigianale.”

Vista la svolta “analogica”, come avete intenzione di affrontare la dimensione-concerto? Cambierete qualche abitudine?

Oltre ai nuovi strumenti sul palco indosseremo dei copricapo simbolo del nostro viaggio in capo al mondo, ogni concerto sarà una festa di paese dove anche chi non sa ballare proverà muoversi.

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