Giorgio Barbarotta è un cantautore dallo sguardo piuttosto disincantato: arrivato al quinto album, Un fedele ritratto, non ha però perso in energia né in voglia di comunicare le proprie idee. Ecco la sua intervista.

Puoi raccontarmi premesse, atmosfera e idee di base di questo tuo nuovo disco?

Per la poetica e la parte testuale progettavo un album spiccatamente eterogeneo che alternasse momenti privati ma universali, dunque di facile identificazione o empatia per l’ascoltatore, ad altri assolutamente collettivi, prendendo spunto dall’attualità, dal presente, così controverso.

Sotto l’aspetto musicale puntavo a un album fortemente connotato e diversificato, di episodio in episodio, sotto l’aspetto ritmico e sonoro: ogni brano ha una sua tessitura definita sul piano batteristico e dei colori peculiari dettati dall’uso delle corde.

Tutto doveva essere riproducibile facilmente dal vivo, dunque un lavoro apparentemente semplice e basato unicamente sugli strumenti live, in una formazione di quattro / cinque elementi.

Vorrei capire meglio il senso del titolo: qual è il soggetto del “Fedele ritratto”?

Rispecchia il suo autore e il biennio in cui è stato concepito, arrangiato e pubblicato. Inoltre non si discosta, tranne un paio di pezzi che si sono notevolmente evoluti in sala prove, dalla stesura iniziale e dalla preproduzione.

Mi pare che la canzone di maggiore impatto sia “Sbotta”: come nasce?

Uno dei peggiori tarli dei nostri tempi è l’abitudine. Siamo passati come popolo attraverso tangentopoli, vallettopoli, calciopoli eccetera eccetera diventando quasi apatici di fronte al peggio che ci poteva passare sotto gli occhi.

Il malcostume in tempo di crisi è aggravato dall’acuirsi delle difficoltà delle personi comuni e dall’accrescersi dei privilegi di pochi, talvolta incapaci o, peggio, farabutti.

Questo moto di sdegno ha dato origine alla canzone. Non è un testo sovversivo o sobillatore: è piuttosto un invito a prender posizione e non lasciarsi trascinare giù nel gorgo dell’indifferenza.

Per motivi opposti mi ha colpito “Gratia Dei”: che tipo di percorso ha avuto questa canzone?

“Gratia Dei” risente dell’influenza di un grande regista contemporaneo, Terrence Malick, e in particolar modo del suo “Three of life”, pellicola che cela significati profondi.

Sono confluiti nei versi di quella canzone riflessioni sulle capacità e l’ingegno dell’uomo, le sue creazioni e i traguardi raggiunti, contrapposti alla sua innegabile fragilità. E’ un’invocazione d’aiuto, una preghiera, uno slancio verso il divino, il mistero.

L’ho scritta poco prima dell’elezione di Bergoglio, sorprendendomi a sperare che il nuovo pontefice incarnasse una figura moderna, più umana, più attenta all’oggi, propositiva, equilibrata.

In passato hai suonato perfino in Cina: hai in programma escursioni estere particolari per promuovere questo album?

Per ora nessun nuovo piano estero all’orizzonte. Se ce ne fossero i presupposti, mi piacerebbe suonare in Turchia, paese magnifico in cui sono stato un paio di volte come turista.

Un crocevia di culture estremamente stimolante, pieno zeppo di musiche di ogni genere. Vive un periodo di difficile transizione come spesso accade in zone di grande fermento vitale. La storia passa di lì.

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