L’intervista: Ismael, animali totem e mistero
Un gruppo ad alta percentuale di letteratura: gli Ismael hanno appena pubblicato Tre, terzo disco per la band capitanata dallo scrittore Sandro Campani, che ha risposto così alle nostre domande.
Questo è il vostro terzo album, quattro anni dopo “Due”: mi potete raccontare che cos’è successo dall’uscita del vostro ultimo disco?
C’è stato, per me, l’impegno sul romanzo uscito nel 2013, La terra nera. Per gli Ismael, l’assestamento definitivo della formazione, con l’entrata di Gigi alla batteria e Piwy al sax; in realtà Piwy aveva già suonato sul secondo disco, ma aggiungendo le sue parti su pezzi già strutturati, mentre per questo album abbiamo cominciato a lavorare come una vera band, studiando gli arrangiamenti in sala prove, trovando una compattezza che non avevamo mai avuto.
Anche il repertorio precedente è stato riarrangiato in questa chiave: abbiamo saggiato la nuova formazione con un ep contenente due pezzi dal primo disco riarrangiati, più due nuovi che sono poi entrati in “tre”, poi ci siamo presi tutto il tempo in studio per lavorare, in varie session.
C’è anche da dire che faccio una fatica enorme a scrivere i testi; di musiche ne scarto a decine, ne avrei da regalare, ma coi testi è sempre una battaglia: può darsi che tre, quattro anni fra un disco e l’altro siano un tempo fisiologico per gli Ismael.
Dopo svariati cambi di formazione avete raggiunto una stabilità oppure pensate di mantenere sempre le porte aperte?
Come ti accennavo prima, l’ingresso di Gigi alla batteria e Piwy ai fiati ha solidificato il nostro impatto, ci ha stabilizzati. La formazione “classica” (Sandro, Barbara e Giulia) s’è allargata a cinque; poi ci sono persone bellissime con cui ci è sempre piaciuto condividere le cose (Termos della Paolino Paperino Band, Silvia Orlandi, Emiliano Mazzoni), con le quali continueremo a collaborare anche in futuro; ci piacerebbe farlo anche in modo più stretto.
Mi sembra che dietro le tre canzoni dedicate agli “animali” si celino le storie più intime del disco: come nascono i tre brani?
Hai ragione. “Canzone del bisonte” è proprio il brano più autobiografico del disco. La testa di bisonte sta davvero ad Amsterdam, in un pub, e parla davvero, te lo giuro.
In “Canzone della volpe” uso l’espediente classico di trasferire caratteristiche umane a un animale, parlando del rapporto d’amore e del dolore, della sopraffazione che si porta dietro, come del rapporto fra una bestia e il suo carceriere.
“Canzone del cigno” sta sulle stesse coordinate, ed è la trasposizione abbastanza fedele di una pagina del romanzo (bellissimo) di Helen Humphreys, Coventry, uscito qualche anno fa per Playground.
C’è una donna che ha perso l’amato in guerra, e tenta di ritrovarlo disegnando incessantemente un cigno, fogli su fogli, come se possedere finalmente la purezza di quella forma potesse darle il sollievo del ritorno di chi invece non potrà più tornare.
Mi ha sempre preso dentro, toccato, l’idea dell’animale-totem, dell’animale visto come simbolo, come tramite con la divinità, o con una parte profonda di se stessi; come destinatario di una preghiera “a cose più grandi di me” (per citare i grandi): cose misteriose che ci sopravviveranno.
La lince, che ho visto in un momento molto strano della mia vita, in una sera Lynchana, è diventata l’animale simbolo del secondo disco, nonché del romanzo che sto scrivendo adesso. In “Tre” ci sono tre bestie, a pensarci, e il richiamo finale di “s’arrampicavano” unifica il discorso.
Il gruppo accompagna anche i tuoi reading: vorrei capire che differenza di atmosfera c’è rispetto a un concerto della band.
Nel primo reading che abbiamo portato in giro, quello da “Nel paese del Magnano” (Italic Pequod, 2010) abbiamo scelto un solo racconto, quello che dava il titolo alla raccolta e, comportandoci come se stessimo scrivendo una colonna sonora, abbiamo sviluppato dei temi molto dilatati, ripetitivi e suscettibili di lente variazioni: ciascun personaggio del racconto aveva il suo, che ritornava, variato, ogni volta che quel personaggio si ripresentava, e si incastrava magari con il tema di un altro personaggio che compariva in scena; tutto molto più lento, psichedelico.
Un esempio puoi averlo in “Tema di Irene”, che è appunto la rielaborazione di una delle musiche per il reading: ci piaceva, ci era rimasta in testa, e abbiamo deciso di registrarla.
In quel caso avevamo scelto una voce recitante (Gretha Fontanelli) e noi ci dedicavamo soltanto alla sonorizzazione. Con il romanzo uscito l’anno scorso, La terra nera, che è zeppo di personaggi maschili e molto legato all’Appenino e alla mia storia familiare, mi sono reso conto che funzionava una lettura da parte mia, col tono emiliano, un po’ dialettale, adatto alla voce dei personaggi.
Allora abbiamo fatto un set in cui alternavamo lettura pura e semplice, priva di sottofondo, a sfuriate di tre pezzi molto tirati con la band al completo. La gente era attenta, ci è sembrato che funzionasse. Ecco, per il futuro mi piacerebbe tanto comporre le musiche, insieme agli Ismael, un po’ come abbiamo fatto per il Magnano, e poi lasciarle suonare a qualcun altro, dedicandomi alla lettura.
Riesci a spiegare che cosa c’è di musicale nell’Appennino reggiano, visto quanti musicisti di valore voi compresi sono arrivati da lì nel corso degli anni?
Be’, in realtà, quattro quinti degli Ismael sono reggiani ma pedecollinari, zona Scandiano, mentre io sono dell’Appennino e mezzosangue (reggiano il papà, modenese la mamma); sono cresciuto in Val Dragone, che è sull’ultimo lembo modenese prima del reggiano (il torrente accanto, in cui il Dragone s’immette, è il Dolo caro agli Üstmamo).
Piwy dice che a Scandiano è impressionante la quantità di gente che suona, da anni, tutti hanno sempre suonato, magari anche perché c’è meno da fare, in provincia, rispetto ai capoluoghi. Tanti locali, tanti gruppi che suonano, si conoscono, si scambiano elementi.
Con una visione più diretta, più ingenua magari e anche più netta, negli intenti, rispetto a chi vive in posti caotici e “pieni” dove ci si perde e c’è tutto: la relatività e l’onnipresenza di ogni stimolo che una metropoli può offrire, stordendo, non sono date in provincia, perciò la direzione che si prende può anche essere casuale e nascere da coercizioni, ma dare frutti più pesanti. Non so, magari dico delle stupidaggini che non sono più attuali, però a questa cosa un po’ ci penso.
L’Appenino reggiano è bellissimo, non sono all’altezza di parlartene in poche righe; la bassa collina di Reggio è fatta di montarozzi e cucuzzoli che non si organizzano in valli precise, il Tresinaro e il Crostolo son torrentelli, dal Secchia fino all’Enza sembra non esserci l’ordine di vallate che si sviluppano ampie, dritte da Nord a Sud come in altre parti dell’appennino emiliano.
Qui, già dalla bassa collina, trovi posti scomodi con solo stradine strette e stalloni per le vacche, volti subito le spalle alla città e puoi dimenticarti che esiste; pur se vicino in linea d’aria sei altrove, e guardi altre collinette misteriose e sparse, non capisci come possano essere ordinate, quali percorsi seguano i fossi che le attraversano.
Questo mi sorprende, mi protegge, mi coccola, mi tiene al sicuro, mi fa respirare più forte, mi fa dire: voglio stare qui; e sì, fin da adolescente, pensare che i gruppi che ascoltavo continuamente (gli Üstmamo, i CSI), erano lì, al di là del fiume, e potevi andarli a sentire alla Pietra, faceva un certo effetto. Poi c’erano i Massimo Volume a Bologna, da seguire concerto per concerto, direi che eravamo proprio fortunati.
A proposito, sempre in Val Dragone, ma bello in alto (lui è proprio un montanaro serio), c’è Emiliano Mazzoni: è un cantautore bravissimo, dalla caratura impressionante. Per noi è stato un grande onore averlo ospite nel disco. Il suo secondo sta per uscire, prodotto da Luca Rossi, te lo consiglio vivamente.