E’ uscito a inizio febbraio “The cold summer of the dead“, uno dei migliori dischi italiani di questo inizio di 2014. E non soltanto se ci si limita a guardare nel ristretto ambito post-rock e noise: il secondo lavoro dei Junkfood porta in luce qualità notevolissime e una libertà nella composizione che non ha tantissimi paragoni sul territorio nazionale.
Certo il genere, per chi non è avvezzo, può risultare ostico. Ma se si riesce a entrare, si scoprono mondi di assoluto interesse. Chi invece ha già dimestichezza per esempio con band internazionali come i Mogwai (o con qualche disco dei King Crimson), si troverà su un territorio familiare, anche se non identico. Abbiamo rivolto qualche domanda alla band, i cui musicisti tra l’altro sono apprezzati collaboratori di alcuni artisti piuttosto celebri.
Sono passati quasi tre anni dal vostro esordio, “Transience”: tre anni durante i quali avete affrontato esperienze diverse. Come avete approcciato il lavoro al nuovo disco e qual è stata l’atmosfera durante la sua realizzazione?
Fortunatamente con il vecchio disco siamo riusciti a girare molto, più di quanto ci aspettassimo data la natura della nostra musica. Le sessioni di registrazione sono state perciò fissate quando la tournèe stava giungendo al suo periodo “refrattario”. Le composizioni del disco precedente abbracciavano un arco temporale più ampio e davano in qualche modo ragione dell’evoluzione stessa del progetto, ed erano forse più eterogenee in ragione di ciò. Per questo album abbiamo deciso di lavorare diversamente, definendo da subito un mood e dei riferimenti – non solo musicali – precisi, e sviluppando la composizione e l’arrangiamento in un lasso temporale più circoscritto, in modo da rendere il lavoro più coeso. In questo senso, le Officine Meccaniche sono state di grande aiuto fornendo, oltre agli incredibili equipaggiamenti, anche il raccoglimento necessario alle atmosfere del disco. E’ un luogo che trasuda storia, sulle prime sembra quasi schiacciarti, poi inizi a rilassarti e tutto fila a meraviglia. Per agevolarci, Tommaso e i tecnici hanno sistemato dei punti luce in corrispondenza delle nostre postazioni e spento l’illuminazione della sala: un espediente che a parer nostro ha influito positivamente sull’esecuzione della musica.
Visto che il vostro orizzonte musicale sembra del tutto internazionale, può sorprendere il titolo, che fa riferimento all’ultimo verso di “Novembre” di Pascoli (“E’ l’estate fredda, dei morti“). Potete spiegare come è nata l’idea del titolo?
Eravamo alla ricerca di un tema, di una suggestione, che ricomprendesse gli aneliti del disco e possibilmente le contingenze della sua realizzazione. In questo senso, “Novembre” di Pascoli ci è sembrata perfetta sia per i sentimenti che per i precisi riferimenti temporali, che sono gli stessi della produzione del disco. Siamo consci del fatto che Pascoli venga dai più considerato noioso in italia, di solito viene archiviato dagli studenti come uno degli autori che ti devi sorbire per arrivare a Montale, ma non abbiamo idea di quanta considerazione goda all’estero. Magari uno straniero, scevro da questi preconcetti (che ai tempi erano un po’ anche i nostri) potrebbe apprezzarlo maggiormente. E, in ogni caso, “Novembre” è bellissima.
C’è una linea di tensione continua nelle tracce del disco (salvo che in qualche rara oasi come “On canvas”), come se aveste voluto “tenere sulla corda” l’ascoltatore. Potete aprire le porte sui vostri procedimenti di lavoro?
Avevamo in mente un disco teso, oscuro e moderatamente senza speranza. Perciò abbiamo selezionato le composizioni che ci sembravano più pertinenti al discorso che intendevamo intraprendere e, una volta individuata una struttura di massima, abbiamo provveduto a scrivere quello che mancava, sia in termini di collegamenti fra i brani e condotte improvvisative, che in termini di composizioni ad hoc. Al contempo, non volevamo che suonasse troppo monocorde: è verissimo che l’esistenza è sofferenza, ma è altrettanto vero che questa monotonia viene spezzata a intervalli irregolari e imprevedibili, dopo i quali siamo in qualche modo cambiati e diversi, come se avessimo avuto accesso a una piccola verità. Volevamo dare ragione di questa profondità. Da qui la scelta non casuale di inserire un momento più rilassato al centro del disco, come una piccola epifania (o una piccola oasi, appunto) che rischiarasse momentaneamente il cielo dalle nubi prima di ripiombare in un violento temporale. In generale, abbiamo cercato di esplorare un certo tipo di visione della vita cercando di declinarla in una gamma emotiva ampia fatta di sentimenti comunque diversi ma che, come osservavi giustamente, sono riconducibili a un unico filo rosso.
Come affrontate la dimensione live?
La dimensione live è senza dubbio quella che ci è più congeniale. Amiamo la possibilità di rivedere il materiale a seconda delle situazioni, collegare brani, arrivando anche a fare set unici senza soluzione di continuità, ove il pubblico e il luogo lo permettano. In ogni caso, di solito i nostri concerti durano attorno all’ora e un quarto. Preferiamo l’idea che il pubblico si alzi con ancora un po’ di appetito, piuttosto che rischiare di annoiare, trattandosi comunque di musica strumentale. Fortunatamente siamo in tour dall’8 di marzo e copriremo tutte le maggiori città italiane, prima di partecipare al Primavera Sound Festival 2014 a Barcellona.
So che alcuni di voi hanno avuto qualche esperienza a livello di collaborazioni con altre band e artisti. Ce ne potete parlare?
Sì, siamo abbastanza attivi anche al di fuori di Junkfood, anche se nell’ultimo periodo abbiamo tutti avuto meno tempo causa nuovo album. Vale quantomeno la pena ricordare che Simone, nostro batterista, suona negli Yuppie Flu e negli Incident on South Street di Enrico Gabrielli e che il nostro trombettista Paolo collabora abitualmente con Calibro 35 e ha partecipato alla tournée dell’anno scorso dei Baustelle, nonché alle registrazioni del nuovo album di Nada e di quello di Dente. Ci piace lavorare nei progetti di altri, sia individualmente sia come gruppo. Come Junkfood, siamo attivi anche nella composizione e registrazione di musiche per la pubblicità e per il cinema. A tal proposito, ci permettiamo di segnalare la data del 14 aprile al Kinodromo di Bologna, una splendida realtà del nostro territorio a cui siamo molto vicini fin dalla sua creazione. In quest’occasione verrà proiettato il film “L’impresa” di Davide Labanti dopo la presentazione all’ultimo Festival del Cinema di Venezia , del quale abbiamo composto e inciso le musiche, mentre noi presenteremo i frutti della nostra collaborazione con la filmaker e artista Carlotta Piccinini in uno spettacolo dal vivo di cui curerà la parte visuale.