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Li abbiamo avuti in anteprima assoluta, e soltanto qui, fino all’uscita ufficiale del disco, si può ascoltare il loro Throw Your Watch To The Water (qui la recensione): stiamo parlando di The Selfish Cales, che abbiamo intervistato.

Questo è il vostro secondo lp ma per certi versi è un nuovo inizio: potete riassumere la vostra storia fin qui?

Andy – Si, possiamo proprio parlare di un nuovo inizio: subito dopo il rilascio del primo LP (“Light Worms And Old Dancing Ladies”) siamo andati incontro a un mutamento pressochè totale della line up.

Rappresentativo di ciò, ancor più del turn over di componenti conclusosi l’estate scorsa con l’arrivo di Sarah, è stato anche lo stravolgimento dei ruoli interni: Gabriel da chitarra/voce dei Cales è passato alla batteria e cori, nostalgico d’un lungo passato come batterista in precedenti progetti, e il sottoscritto è passato dal basso a chitarra e voce.

Possiamo riassumere questi cinque anni dalla nascita del progetto in due ep, due lp e una cinquantina di live, la maggior parte entro i confini della nostra provincia e per i quali contiamo di dare un più ampio respiro al di fuori dei confini regionali.

Tanti aneddoti e tante esperienze, ma ancor più ambizioni e propositi per gli anni a venire.

Sarah – E aggiungo che entrare nei Cales per me è stato un Evento, sì, di quelli che assolutamente meritano la “E” maiuscola.

Prima di subentrare al basso ero già una grande fan dei Cales; quando Andy mi ha proposto la mia reazione è stata di puro sbigottimento: “Ma chi, io?! Ma davvero?”

A volte stento a crederci ancor ora, nonostante siano passati mesi dalle prime prove in sala.

Qual è stato l’approccio alle lavorazioni di “Throw Your Watch To The Water”?

Andy – Potrei dire “lo stesso di sempre”! E’ un disco che molto si diversifica da tutta la nostra discografia, ma coerente nello spirito a una fedele linea comunicante che ci caratterizza da sempre: la totale autoproduzione.

Di necessità, col tempo, abbiam fatto nel nostro piccolo virtù ; la maturità compositiva è proseguita a pari passo di un uso più consapevole delle tecniche di registrazione e produzione, fino ad arrivare a un equilibrio dal quale possiamo dirci soddisfatti e appagati.

Certo: tirare su un piccolo studio di registrazione non è una di quelle cose che consegui dall’oggi al domani, sia come budget che come competenze, ma la motivazione e il senso di padronanza che porta alla propria musica è di valore inestimabile. E’ un percorso che non finisce mai, e l’entusiasmo di fondo sta specialmente in questo.

Nella storia degli ultimi decenni ci son troppe storie di frustrazione tra band e produttori, e la profonda crisi che c’è nel settore da inizio millennio non permette nemmeno più di ambire a quel tipo di frustrazioni o compromessi.

Mi sembra che tra le idee base del disco ci sia anche quella di variare molto le atmosfere da una traccia all’altra. Qual è il vostro processo di lavorazione standard?

 Andy – “Nulla si crea, nulla di distrugge, tutto si trasforma”: mi ritengo ascoltatore ancor prima che musicista, e le composizioni rispondono in modo molto implicito a quello che sono gli input che in quel momento vivo da ascoltatore. Chi pensa di aver perso la “vena compositiva”, paraculata per antonomasia, forse non si può dire un grande ascoltatore.

C’è sempre alla base un processo di assimilazione e reintepretazione, da cui far emergere il più possibile sé stessi per tenersi il più possibile lontani dai manierismi.

Nel nostro caso la psichedelia, intesa come contesto musicale e anche come estetica, fa da confine concettuale ben definito. E meno male direi: in queste ultime settimane sto ascoltando un fottìo di Black Metal e c’è rischio che i Drudkh mi lascino qualcosa per un terzo dischino.

Sarah – E non solo i Drudkh, Andy, mi aspetto anche un pizzico di Nokturnal Mortum!

Ci sono sapori d’Oriente in alcune vostre canzoni: si tratta di un’affinità psichedelica, di una scusa per usare il sitar oppure siete veramente influenzati dalle discipline di origine indiana?

Andy – Ironia della sorte, i due brani col Sitar (Imaginary Journey, I Believe In Magic) sono i due brani di più datata composizione presente nel dischino. Il sitar ha caratterizzato anche molti dei nostri live, ed è forse l’unico aspetto di questo disco che si congiunge più ampiamente col nostro passato.

E’ partito da un’ affinità di Gabriel che, come me, ha avuto dai Beatles una delle più grandi lezioni del suo percorso musicale. Sarò dissacrante, ma il Sitar è una bella gatta da pelare: puoi suonare solo in Do Diesis, a meno che uno voglia preventivare cinque minuti di accordatura tra un brano e l’altro!

Di che cosa trattano e come nascono i vostri testi?

Andy – Se dovessi metterli a bilancia, posso dirti che do’ un 70/80% di priorità del brano all’aspetto musicale (sopratutto armonico) e per un rimanente ai testi.

I nostri testi tendono all’astratto e all’immaginifico, d’impronta ben più estetica che concettuale; nasce da una mia personale propensione alla musica come messaggio il più possibile universale, e in questo senso mi colloco agli antipodi da un approccio cantautoriale. Questione di priorità!

Vorrei sapere come nasce “See Tomorrow’s Shores”.

Andy – “See Tomorrow’s Shores” nasce da quello spirito Progressive che ha iniziato a prender piede nelle nostre composizioni, e di cui questo disco ha iniziato a farsi a tratti portavoce.

Ci piace pensare a ulteriori venature Progressive in composizioni future, pur mantenendo una certa linearità emotiva dei brani che abbiamo conquistato sopratutto con questo disco.

Sin dalla sua genesi mi resi conto del suo perfetto ruolo da ending track, e cela un messaggio ben poco subliminale: l’outro è una nostra citazione a Starship Trooper degli Yes, citazionismo che ultimamente fu colto live da qualche ascoltatore con nostro sommo gaudio :3

Yes gruppo della vita, del resto.

Mi incuriosisce anche la title track, “Throw Your Watch To The Water”: qual è la sua genesi?

Andy –
Paradossalmente, è nato prima il titolo che il brano in sé. L’anno scorso eravamo dietro alle riprese per il video di Black Opal (da “Light Worms”), e Gabriel rimase flashato da una pellicola surrealista incrociata per puro caso su Rete 4: “Getta il tuo orologio nell’acqua” di Josè Val Del Omar, del quale sono presenti alcuni spezzoni nel videoclip.

Il titolo e i testi si sono poi sposati alla perfezione con quel tappeto armonico ispirato da un altro dei nostri più grandi amori, gli Electric Light Orchestra. E’ un brano che nella sua forma finale mi ha stregato, a livelli esistenziali: se per qualche disgrazia dovessimo essere ricordati per un solo brano, Throw Your Watch To The Water dovrà essere quel brano.

Nelle influenze che citate ci sono gruppi dei 60s come i Kinks ma anche fenomeni più recenti come i Kula Shaker: chi altri mettereste in una vostra playlist ideale?

Andy – Ahi ahi, rischio di essere più prolisso di quanto non lo sia stato finora! Personalmente ho un approccio alla musica molto storicista, tendo a catalogare a livelli autistici dall’Hard Bop fino al Djent.

Come dicevo prima, per prevenire un’ entropia assoluta ci muoviamo entro la Psichedelia e derivati come confini concettuali, e nemmeno questo basterebbe per rispondere sinteticamente.

E allora sai cosa faccio? Rimando a una sezione del nostro sito creata ad hoc qualche tempo fa, una lista di dischi che più tra gli altri rappresentano quel mondo che abbiamo creato nei Cales e di cui vi consiglio vivamente gli ascolti:

Sarah – In effetti credo che una peculiarità dei Cales sia il fatto che tutti noi possiamo vantare ascolti decisamente eterogenei senza che questi influiscano necessariamente, sconvolgendo la matrice, come la si può considerare, psichedelica.

Io, per esempio, mi porto dietro gli strascichi di un’adolescenza da “darkettona”, e non nego che ancora a oggi mi capita di fare delle enormi scorpacciate di New Wave, Darkwave e Industrial Metal per dar credito ai ricordi; quindi sì, di soppiatto infilerei sicuramente qualche album a tema nella mia playlist ideale.

Ma è anche vero che poi ci pensano sempre gli Yes, a riportarmi sulla retta via. Anche perché, come d’altronde ha già detto Andy, Yes gruppo della vita.

Dal vivo vi schiererete in versione power trio oppure vi farete aiutare da qualcuno?

Andy – Il power Trio, logisticamente parlando, è una pacchia. C’è chi potrebbe chiedersi fino a che punto si possa rinunciare alla massiccia presenza di tastiere nei nostri brani, dilemma abbastanza lecito, ma possiamo dirci piuttosto soddisfatti di quanto riscontrato in 8 live come Power Trio.

In particolare, va rapportato al tipo di palco con cui hai a che fare: molti di voi sapranno quanto è frequente per un gruppo emergente imbattersi in palchi piccoli con backline di modesta portata, e quanto questi allestimenti siano debilitanti per formazioni più espanse con più strumenti da far uscire nel muro sonoro.

In questo caso il power trio ne esce più pulito nei suoni, e con una dinamica più incalzante per il live medio-piccolo.

Una cosa è certa, a ogni modo: se i palchi inizieranno a farsi più grossi in pianta stabile be’, non ci faremo certo trovare impreparati!