Luigi Tenco: spero che serva a chiarire le idee a qualcuno #sottotraccia

Come da tradizione (recente) dedichiamo agosto alla lettura: per il 2024 abbiamo deciso di ripubblicare una serie di pagine tratte dal volume “Italia d’autore” (Arcana, 2019), dedicato ai grandi cantautori che hanno fatto la storia della musica italiana.

Oggi Cassine è un paese dell’Alessandrino come tanti altri: il Conad, il distributore Agip, la ferrovia, le case bianche, rosse, gialle, la sagra medievale in settembre. Non è difficile immaginare però come fosse a fine anni Trenta, quando la cameriera Teresa Zoccola è costretta a tornare da Torino in tutta fretta, dopo che una relazione clandestina (si dice con Ferdinando Micca, sedicenne erede di un’influente famiglia del capoluogo piemontese) l’ha costretta ad abbandonare il lavoro e a riparare presso la famiglia d’origine.

Il marito, Giuseppe Tenco, è morto da poco, forse per un incidente di stalla; poiché la relazione le ha anche regalato una gravidanza, per una fresca vedova non sono momenti semplici da affrontare. Luigi Tenco, figlio della colpa, nasce il 21 marzo del 1938 e cresce nelle campagne alessandrine, tra Cassine, Ricaldone e Maranzana, in una zona oggi fertile per l’enogastronomia, ma che allora poteva regalare pochissime prospettive di lavoro che non fossero legate a doppio filo con la campagna.

La Liguria e il jazz

Ma Luigi non ha una grande affinità con il lavoro contadino: a tre anni legge e scrive, mentre a dieci si trasferisce di nuovo, con la madre e il fratello Valentino, in Liguria. È il 1948, la guerra ha lasciato non poche tracce ma anche qualche prospettiva: Teresa finirà per aprire un negozio di vini a Genova, riuscendo a iscrivere Luigi al liceo. È il 1953 quando il ragazzo fonda il suo primo gruppo jazz: suona il clarinetto accanto a tre amici, tra cui Bruno Lauzi; si battezzano Jelly Roll Boys Jazz Band e si dilettano a proporre brani di Nat King Cole.

Più tardi si cimenterà con il sax, nel trio Garibaldi, mentre è il 1958 e ormai non è più un novellino quando entra nei Diavoli del Rock, con Graziano Grassi e Gino Paoli. Si iscrive a ingegneria, ma presto passa a scienze politiche e probabilmente, pur amando la musica, non trascura la possibilità di una carriera di altro genere. Il 1959 è un anno di svolta: con un altro cantautore maledetto e sfortunato, Piero Ciampi, si trasferisce a Milano, ospite di Gian Franco Reverberi.

Frequenta la Ricordi e partecipa alla realizzazione di 45 giri come La tua mano di Paoli e Se qualcuno ti dirà di Ornella Vanoni. Il soggiorno milanese diventa una specie di ritrovo della “scuola genovese” (anche se di genovese autentico non c’è quasi nessuno): nella stessa pensione di galleria del Corso si ritrovano, oltre a Tenco e Ciampi, Paoli, Endrigo, Lauzi e Franco Franchi. Fa parte anche del gruppo I Cavalieri, con Reverberi ed Enzo Jannacci, ma inizia anche a incidere in prima persona, però utilizzando pseudonimi: in una lettera a Nanni Ricordi chiede esplicitamente di non apparire perché iscritto al Partito Socialista Italiano, all’interno del quale, sostiene, è candidato a cariche importanti.

La censura, gli amici, Dalida

Nel 1961 esce i miei giorni perduti, nel 1962 recita in La cuccagna di Luciano Salce: nel film canta La ballata dell’eroe di De André. Ma quella dell’attore non è la sua strada: esce il suo primo 33 giri, con Mi sono innamorato di te, Angela e Cara Maestra: quest’ultimo brano («Cara maestra/un giorno m’insegnavi/che a questo mondo noi/noi siamo tutti uguali/Ma quando entrava in classe il direttore/tu ci facevi alzare tutti in piedi/e quando entrava in classe il bidello/ci permettevi di restar seduti») in tre strofe riesce ad attaccare un certo tipo d’insegnanti, un certo tipo di preti e un certo tipo di politici ex fascisti riciclati e gli frutta due anni di censura da parte della Rai.

Non sarà l’ultima volta: anche un altro paio di brani successivi, Io sì e Una brava ragazza, saranno vittime della scure censoria. Nel frattempo si era rotta l’amicizia con Gino Paoli: Tenco, libertario nelle sue canzoni, è un po’ più rigido quando si affrontano le situazioni di persona e disapprova la relazione di Paoli con Stefania Sandrelli. Nel 1965 assolve il servizio militare, anche se con parentesi curiose: per esempio è richiesta la sua presenza in uno spettacolo della televisione argentina e, in un modo o nell’altro, riesce a esibirsi, con grande successo di folla, nonostante faccia ancora parte delle forze armate e quindi gli dovrebbe essere vietato l’espatrio. Qualcuno sostiene che ad aiutarlo sia stata anche l’iscrizione al PSI.

Passato nel 1966 alla RCA, incide Un giorno dopo l’altro, che diventerà anche la sigla degli episodi del celebre Commissario Maigret interpretato da Gino Cervi. Sono di questo periodo altri classici della produzione di Tenco, su tutti Lontano lontano. A Roma, qualche tempo prima, ha conosciuto Iolanda Cristina Gigliotti, che usa già il nome d’arte Dalida, ottenuto ispirandosi al kolossal storico Sansone e Dalila. I suoi genitori sono calabresi, ma Iolanda è nata in Egitto, perché il padre era primo violino all’Opera del Cairo.

Da ragazza vince diversi concorsi di bellezza e diventa Miss Egitto, ma è turbata da un problema di strabismo, per il quale si sottopone a diverse operazioni chirurgiche. Recita, canta, è la prima donna ad aggiudicarsi un disco di platino, ma ha una vita sentimentale turbolenta: nel 1961 sposa Lucien Morisse, direttore di Radio Europe 1, ma pochi mesi dopo il matrimonio incontra a Cannes il giovane pittore e attore Jean Sobieski, s’innamora e fugge con lui. Con Tenco entra in sintonia, i due hanno una relazione, anche se circolano ipotesi sul fatto che sia tutta un’invenzione della casa discografica a scopi pubblicitari.

Sanremo 1967

Qualcuno sostiene anche che Tenco sia in qualche modo costretto a presentarsi al Festival di Sanremo per eseguire Ciao amore ciao, in coppia con la stessa Dalida. In origine il brano aveva un testo completamente diverso, s’intitolava Li vidi tornare: ma un testo che parla di soldati che partono per la guerra durante il Risorgimento non è adatto a spuntare tra i fiori dell’Ariston. Così Tenco ci lavora e ottiene una canzone diversa, adatta forse a essere scambiata per una canzone d’amore tout court. Ma la giuria di qualità e il pubblico non ci cascano: è chiaramente una canzone d’autore, con ambizioni, con una certa qualità, quindi non può e non deve profanare il Festival.

Dodicesima al voto popolare, la canzone fallisce il ripescaggio e la storia, quantomeno della musica italiana, rammenta impietosamente che al suo posto è ripescata La rivoluzione di Gianni Pettenati. Ma non è certo colpa di Pettenati ciò che succede in seguito. L’Hotel Savoy di Sanremo, attualmente, è in disuso fin dagli anni Settanta, in attesa di una rinascita periodicamente rilanciata sui media e periodicamente rimandata. Ma quando vi risiede Luigi Tenco, nelle sere tragiche del gennaio del 1967, è uno dei migliori hotel della Riviera, conosce soltanto le luci e nessun’ombra.

Dopo l’esibizione sul palco, la sera del 26 gennaio 1967, Tenco e Dalida dovevano cenare insieme con il produttore Paolo Dossena e altri amici ma, giunto al ristorante, Tenco aveva deciso di tornare in albergo. Sono circa le 2 del mattino quando Dalida entra nella stanza 219 del Savoy, dove alloggia Tenco. La porta è accostata e con la chiave nella toppa esterna, quindi non c’è bisogno di bussare. Ai primi soccorritori Dalida appare mentre alza da terra il busto di Luigi e lo abbraccia. Il corpo di Tenco ha un foro di proiettile alla testa e vicino al cadavere c’è un biglietto scritto a mano che dice:

Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita, tutt’altro, ma come atto di protesta contro un pubblico che manda “Io tu e le rose” in finale e una commissione che seleziona “La rivoluzione”. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi.

Luigi Tenco è morto per te

Suicidio come atto di protesta, insomma. Come sublimazione ultima dell’importanza della musica, della propria musica, contro la degenerazione del gusto popolare. Suicidio, però, anche come atto infantile, come un estremo “non gioco più”, che consente di scendere da una giostra diventata insopportabile. I Baustelle, anni dopo, canteranno Luigi Tenco è morto per te, ma l’impressione è, al contrario, che Tenco sia morto soprattutto per se stesso, per aver constatato sulla propria pelle l’inadeguatezza baudelairiana dell’albatro.

A meno che non sia un complotto, ovviamente: per anni si sono susseguite sul caso Tenco le spiegazioni più fantasiose, che facevano leva su un’inchiesta condotta in modo non proprio irreprensibile. Non fu ritrovato il proiettile, ci sono incongruenze rispetto alla pistola di Tenco, che secondo alcune fonti non avrebbe mai sparato, non fu fatto il guanto di paraffina, non fu fatta l’autopsia. Inoltre si sollevano dubbi e obiezioni sulle perizie calligrafiche riguardo al biglietto scritto: c’è chi sostiene che facesse parte di un elaborato più lungo, che annunciava soltanto l’abbandono della musica, ma che sarebbe stato poi interpolato dalla mano del presumibile assassino.

In più, il corpo di Tenco avrebbe riportato contusioni ed ecchimosi, come dopo una colluttazione, e ci sarebbero state tracce di sabbia, come se l’omicidio fosse avvenuto in spiaggia, con il cadavere poi trascinato fino alla stanza. Il giornalista Rai Sandro Ciotti e Lucio Dalla avevano le stanze contigue a quella di Tenco, ma riferirono di non aver udito alcuno sparo. Nel 2005 il corpo è stato riesumato e le nuove indagini hanno confermato la tesi del suicidio, senza però convincere i teorici del complotto.

Perché uccidere un cantautore?

Ma perché uccidere un cantautore? Perché Luigi Tenco non era soltanto un cantautore. Era iscritto al PSI, come si è visto, e secondo alcuni quel famoso viaggio in Argentina, durante la leva militare, in realtà nascondeva non meglio precisati obiettivi politici. Si dice poi che esponenti di destra preparassero un’aggressione nei suoi confronti: di sicuro il produttore Dossena ha parlato di minacce di morte subite dal cantautore, che infatti aveva una pistola proprio per difendersi da eventuali rischi.

Un altro lato oscuro è quello che riguarda Dalida e ancor più il suo ex marito Morisse: la cantante lo avrebbe visto a Sanremo nei giorni precedenti la morte di Tenco. Morisse, a quanto pare, era legato al clan dei Marsigliesi e il commissario Molinari, che si occupò dell’inchiesta, in passato aveva indagato proprio nei confronti dei Marsigliesi. Molinari più tardi apparve nella lista degli affiliati alla P2 e, particolare ancora più inquietante, nel 2005, quando fu scoperchiata la tomba di Tenco, non c’era: era morto, assassinato mesi prima da un ladro, nella sua abitazione.

Anche Dalida nel 2005 non c’era più: tenta di uccidersi una prima volta un mese dopo la morte di Tenco, il 26 febbraio, in un albergo parigino in cui aveva soggiornato con il cantautore. Salvata da una cameriera, si riprende, continua la propria esistenza, è nominata Commendatore da De Gaulle, ma nel 1977, dieci anni dopo la morte di Tenco, tenta di nuovo, senza successo, di togliersi la vita.

È il terzo tentativo quello riuscito: il 3 maggio 1987, nel suo appartamento di Montmartre, sceglie i barbiturici, e questa volta non la salva nessuno. Probabilmente anche a lei si adattano bene i versi che De André, unico fra i colleghi a presenziare ai funerali di Tenco, dedicò all’amico in Preghiera in gennaio: «Signori benpensanti, spero non vi dispiaccia/se in cielo, in mezzo ai Santi, Dio, fra le sue braccia/soffocherà il singhiozzo di quelle labbra smorte/che all’odio e all’ignoranza preferirono la morte».