Esce oggi Bingo, il nuovo disco, ma anche un po’ il nuovo manifesto, di Margherita Vicario, ormai punto di convergenza di una scena che se ne frega dei confini tra hip hop, pop e cantautorato e ci canta sopra con allegria, intensità e verità.
Durante la conferenza stampa di stamattina abbiamo rivolto un paio di domande a Margherita che ci ha raccontato del suo approccio “non ideologico al femminismo, perché racconto di cose che mi sono successe di persona, in giro per la strada, in farmacia, con fidanzati, non fidanzati eccetera. E’ la vita. Così come con K-Change, l’organizzazione che appoggio, che parla di “minoranze”, come se avesse ancora un senso questo termine, partendo dai numeri e dalle statistiche”.
Abbiamo chiesto a Margherita come spiega l’ammirazione che riscuote, pur portando avanti concetti molto forti e forse “divisivi” (come si dice in politica), anche da colleghi che fanno generi diversissimi. E lei ha risposto dando merito al suo produttore, Dade.
“A tutti i miei colleghi auguro di trovare un Dade. E’ vero che io mi presto un po’ a tutto. E’ anche la mia natura di attrice che fa sì che se Dade mi dice di fare un pezzo rap, io “gioco” a fare un pezzo rap. Tutte le volte gli dicevo che era il mio regista, poi ok, ce la metto io un po’ di “ciccia”, anche se in molto mi ha aiutato lui. Era tipo Socrate, mi diceva: “Ma se non è blu, di che colore è?” E io: “Rosso, rosso!” e scrivevo rosso. Anche sui testi mi ha molto aiutato e punzecchiato. Quindi sono felice di essere non un punto di riferimento ma di essere apprezzata, e gli auguri di trovare le persone giuste con cui lavorare, che è un po’ la svolta”.
E la svolta si concretizza in quattordici pezzi ricchi di istinto e personalità, che fanno risaltare non soltanto un’artista poliedrica, ma una “persona” (anche nel senso etimologico e quindi teatrale del termine) che di sicuro non si può far finta di non vedere.
Margherita Vicario traccia per traccia
Si parte veloci e colorati, e del resto non poteva essere diverso da così: la festa di Bingo, title track e celebrazione di miracoli magari di basso livello ma portatori di felicità istantanea apre il disco.
Ecco poi Orango Tango che continua nel discorso di mescolanza di suoni, continenti e periferie del mondo, con richiami all’attualità (tipo le “dediche” alla Meloni e De Luca), alla propria autobiografia, tutto fatto ballando e “rotolando nel fango”.
Come va sale un po’ più gradualmente, ma poi neanche tanto. Il clima sonoro è sempre leggero ma qui si legge qualche ripensamento in più, per una narrazione “in famiglia”, senza perdere mai del tutto il sorriso.
Meno ripensamenti con Troppi preti troppe suore, che ha ritmi controllati ma su passo quasi di fanfara. L’argomento è abbastanza evidentemente introdotto dal titolo: la fastidiosa abbondanza della morale cattolica che condiziona ancora la politica e le vite di tutti, chiuso da un coro di bambini.
Xy è il singolo che esce ad accompagnare il disco, con il featuring di Elodie: si danza su ritmi orientaleggianti, mentre si dialoga a proposito di questioni di sessismo. L’atmosfera è leggermente più noir, soprattutto nelle parti cantate dalla partner-in-crime di questo duetto.
Potrebbe sembrare quasi autocelebrativa Fred Astaire, immersa nella sua atmosfera vintage, che cita leggende tipo Maradona, Beyoncé, Johnny Cash, ma solo per raccontare l’importanza del proprio oggetto del proprio amore.
Il lato (parzialmente) oscuro emerge in Dna (Oh Putain!): poche note sullo sfondo, qualche coro a fare da corredo e interrogativi che toccano l’eredità genetica, il talento, i commenti sui social, l’autostima e molti altri argomenti. “La domanda è: stronzo ci nasci o ci diventi?”
Come noi è una ballatona con il pianoforte, almeno sulle prime. Perché poi i suoni rimangono sul classico, ma il gioco sonoro si fa fitto, ricco, sgorga in maniera totale, mentre una Margherita quasi in stile primo Bennato si cimenta in un brano che si pone domande su come si fa a ispirare e migliorare le persone.
Benché alle spalle avesse altri brani e anche un ep, Abaoué (morte di un trap boy) fu il singolo che segnalò il cambio di passo di Margherita. Uscito nel gennaio del 2019, accompagnato da un video potente, questo brano mostra per la prima volta la capacità di mixare alto e basso, tristezza profonda e ironia, sempre con una voglia irrefrenabile di muovere il culo.
Concetti ribaditi e anche amplificati da Mandela, che all’epoca fece girare parecchie teste e che continua a farle girare: poesia, e una fotografia della realtà quasi felliniana, a celebrare l’immigrazione che qualcuno osteggia, che molti fingono di non vedere, e che invece la cantautrice osserva, in cui si immerge e trova ispirazione, per scrivere canzoni ma anche per conoscere meglio la vita.
Ho fatto il classico anch’io, ma giuro che lo padroneggio meno della Vicario, che in Romeo, con Dade e Speranza, butta un mantello teatrale sul racconto di un rapimento. Perché d’amore non si muore, ma di criminalità, soprattutto se organizzata, sì.
E via col porno: la già semileggendaria Giubbottino fa cadere altri tabù, su ritmi marcati, aiutandosi con i fiati e con un ritornello che rimane in testa. Tutt’altra aria quella che si respira sul terrazzo del Pincio: la canzone dedicata alla cugina è tutto tranne che sdolcinata. Anche in questo caso pezzi di realtà affiorano quasi senza filtri: il figlio, il gatto cisposo, il gelato aspro, l’abbraccio mentre lei, la Marghe, dà di matto.
Si chiude con la leggerezza di Piña Colada, insieme a Izi, con i desideri per il futuro, i giochi vocali quasi lirici, il sottofondo finto tropicale, le ritmiche belle fitte. “Ma l’errore più frequente/è non vivere il presente”
Come nei vecchi dischi hip hop, quelli che concentravano un po’ tutta la produzione notevole, Margherita Vicario raggruppa tutti i singoli usciti finora, a testimonianza di una crescita continua, impetuosa, irrefrenabile, entusiasmante. E questo quasi a prescindere dalle canzoni in sé, che sono ovviamente una parte fondamentale, ma è proprio il personaggio a saltare fuori, come del resto suggerito dalla copertina.
Confesso che ero un po’ perplesso dalla scelta di inserire anche singoli di due anni fa e oltre, per il possibile effetto “meglio di” (per esempio Madame, che ha pubblicato di recente il suo esordio da sedici canzoni, ha lasciato fuori Sciccherie e altre canzoni di successo). Ma invece è giusto così, perché questo disco è proprio la fotografia coerente di questa “nuova” Margherita, che ha svoltato con tanta convinzione che è difficile ricordarsi dei precedenti.
Ma soprattutto che è emersa con prepotenza come un nuovo punto di riferimento del pop (al femminile? Chi se ne frega, è il 2021), usando armi che non sono sempre pop: c’è tantissimo hip hop, inteso come tecnica ma anche come struttura, c’è l’elettronica, ma c’è soprattutto la realtà, nuda, cruda, che ti spacca la faccia o ti accarezza, ma che nella voce di Margherita trova comunque un senso.
Genere musicale: cantautrice, pop
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