Motta, Emma Nolde, Eugenia Post Meridiem @ Goa-Boa 2021: il report
L’Arena del Mare del Porto Antico di Genova ha accolto Motta con tutti gli elementi della fine dell’estate. Doveva essere la data zero quella di Francesco a Goa-Boa Festival, rinviata per problemi tecnici al rientro dalle ferie, al ritorno alla realtà. Qualche goccia di pioggia al mattino, il buio che ha abbracciato il palco ben prima di quanto ricordassimo a luglio, le giacche tirate fuori dagli zaini per non sentirsi soli in mezzo a tutte le emozioni che la serata ha saputo regalare.
Il compito di riaccendere le luci sul palco è affidato a Eugenia Post Meridiem, band di giovani genovesi che ha saputo conquistare il pubblico ben oltre i confini della Liguria: con il loro primo album In Her Bones, pubblicato nel 2019, hanno girato l’Italia e sono stati selezionati per partecipare al ESNS Festival (Groningen, Olanda), al MENT Festival (Lubiana, Slovenia) al WAVES Festival (Vienna, Austria) e per partecipare al programma INES #talent 2020.
Il fascino etereo di Eugenia, voce e chitarra del gruppo, riesce a catturare in maniera quasi ipnotica, mentre gli arrangiamenti e le sonorità dei brani fanno spaziare tra la la psichedelia e il folk. I testi in inglese, il racconto dei viaggi vissuti insieme, l’attitudine a rendere personale ogni passaggio, ogni pausa sono le caratteristiche vincenti del gruppo, che ha proposto al pubblico i brani contenuti nel primo disco e l’ultima uscita Life Sleeper.
Altrettanto magnetica è Emma Nolde, giovanissima artista di Empoli che somiglia molto a una promessa mantenuta. In pochissimo tempo è riuscita ad ammaliare lo stesso Motta, con il quale è già iniziata una collaborazione in studio.
Le si vede il cuore mentre canta, sottile nelle forme e potente nel calore della voce. Ha definito la sua esibizione una “challenge contro se stessa”: durante l’esibizione, chitarra e voce, una corda salta ed Emma prende in prestito una chitarra “punk” che non la convince, ma che riesce a dominare. Il bello della diretta, il bello della musica live, è che basta uno strumento a cambiare il sapore.
Resta, Sfiorare, (male) sono le prime tracce proposte, che ipnotizzano un pubblico forse ancora distratto, forse già concentrato sul rientro dalle vacanze. Un piccolo omaggio a Jeff Buckley con l’interpretazione di Grace, tornando poi ai brani di Toccaterra, il suo primo album, con Berlino e Nero Ardesia. Visibilmente emozionata, emotivamente sovraesposta, ha saputo riempire il palco semplicemente con il suo sentire, con le sue parole, con le dita nervose sulle corde del cuore.
Motta e la voglia di suonare
Troppo veloce per essere perfetta, è già il tempo dei saluti. Ritroveremo sul palco Emma Nolde insieme al protagonista della serata, e la sensazione è quella di una prima volta destinata a ripetersi.
Ancora un cambio palco, l’ultimo, ed ecco arrivare nell’ombra Francesco Motta. Una scaletta lunghissima, “quasi un sequestro di persona” dice scherzando l’artista, “perché dopo un anno e mezzo senza suonare una band non ha voglia di parlare… ha solo voglia di suonare”. E si suona tanto, si suona con passione, si suona come se ci fosse un solo credo, quello della musica.
A te è la prima traccia proposta, con il suo testo breve e la sua intensità musicale, che dà il via a una carrellata di brani contenuti nel suo ultimo lavoro Semplice: E poi finisco per amarti, L’estate d’autunno, Via della luce, Qualcosa di normale, interpretata insieme ad Alice Motta, sorella e compagna di musica fin dai tempi dei Criminal Jokers, a cui l’artista è profondamente e visibilmente legato.
Scende dal palco Alice, e si siede tra il pubblico per applaudire Francesco, cantare insieme a lui, fargli qualche video. Semplice, come l’affetto, come il brano che introduce il primo capitolo della storia di Francesco, La fine dei vent’anni. Il pezzo è l’icona del suo essere, almeno tra i fan della prima guardia: dentro ci sono tutte le contraddizioni di chi sta diventando grande, c’è la ricerca del suono perfetto che rasenta l’ossessione, c’è l’intenzione a cui, vivaddio, seguono i fatti.
Quello che non so di te manda avanti le contraddizioni, questa volta quelle che si avvicendano dentro le dinamiche del conoscere qualcuno, rendendosi conto che si può anche essere felici. Si cammina a passo svelto, si arriva a Sei bella davvero e agli occhi rossi che non sono soltanto quelli della protagonista, e alle mani che si lasciano andare tenendo il tempo quando parte La nostra ultima canzone.
Le luci si abbassano ancora, mentre cresce l’entusiasmo entrando nel vivo di quel che Motta riesce a portare sul palco: con Del tempo che passa la felicità sgancia la bomba, che esplode poi sull’interpretazione con Emma Nolde di Quando guardiamo una rosa, uno dei pezzi che resteranno impressi nella memoria di chi c’era.
Prima uscita, primo ritorno sul palco. Se continuiamo a correre, Roma stasera, Ed è quasi come essere felice. Tre titoli che potrebbero da soli reggere il periodo. È questa la versione di Motta che fa saltare i chiodi con cui pensavi di riuscire a tenere ferme le tue convinzioni, quella in cui, in ginocchio, esprime la sua devozione alla musica, quella in cui inizia a suonare senza stare mai fermo, quella in cui va a disturbare i suoi compagni di palco, a distorcere i loro suoni.
Poi si placa, torna a sentire senza impazzire, e regala un brivido con una versione di Mi parli di te, dedicata al babbo, in cui Alice, tra il pubblico, sorride e fa qualche foto. C’è anche Emma Nolde in prima fila, che si gode gli ultimi brani: Quello che siamo diventati, Abbiamo vinto un’altra guerra, fino ad arrivare a un palco nudo di musicisti, con solo Francesco e la sua chitarra, per una versione acustica di Dov’è l’Italia e l’immancabile Non a Nottingham, brano tratto da Robin Hood e icona del disagio di una intera generazione di bambini, come spesso ama raccontare Motta.
È mezzanotte, è stata una lunga serata, una di quelle in cui gli artisti sul palco ti abbracciano come abbracceresti i tuoi pensieri, una di quelle in cui torni a casa e non puoi fare a meno di sentire ancora scorrere a tutto volume le sensazioni sottopelle. Una di quelle in cui qualcosa sembra ancora semplice, come tutto quello che non è.
Testo e foto di Chiara Orsetti
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