Un lavoro che parte da molto lontano, impreziosito da collaborazioni importanti: Myle pubblica Is Not Here, il proprio nuovo album. Con l’apporto di personaggi come Colin Edwin (Porcupine Tree), Nicola Manzan (Ronin, Bologna Violenta), Thøger Lund (Giant Sand), Mario Evangelista, Leo Caligiuri, Hugo Lee, Myle pubblica un lavoro di quattordici canzoni che vede il musicista emiliano tuffarsi in prima persona in un mare che ha navigato, ma fin qui soprattutto sulle imbarcazioni altrui.
“Myle nasce nel 2020, e con lui l’album Is not there. 14 canzoni per affrontare il presente, per affrontare i miei thirties ormai avanzati nel mondo di oggi. Ogni canzone riguarda il nostro tempo, è un messaggio o forse una domanda. Non sono capace di non parlare del Mondo in cui vivo, di ciò che sento giusto e sbagliato, di ciò che mi fa incazzare o sorridere. Non so creare per me stesso, devo per forza comunicarlo. In Is not there non ci sono solo io. Quintali di ispirazione a poesia contemporanea e grandi musicisti come Thøger Lund (Giant Sand), Colin Edwin (Porcupine Tree), Nicola Manzan (Ronin, Bologna Violenta), Mario Evangelista, Leo Caligiuri, Hugo Lee e altri. Ho scritto ogni singola nota e parola, e arrangiato l’intero disco, ma mi sono più sentito quasi un piccolo coordinatore di menti, mani e sensibilità geniale, più che un direttore d’orchestra. Volevo che il disco fosse estremamente mio, ma con il loro fondamentale contributo creativo. Allo stesso tempo un lavoro personale e corale...”
Myle traccia per traccia
Dimenticare Berlino (o riprenderla, come diceva qualcuno) è un’operazione difficile: Forget Berlin è una canzone fortemente melodica e dai molti strati sonori, sotto i quali si nasconde (per così dire) una cospicua malinconia.
Più determinato il passo di Honeymoon, una luna di miele a due voci, piuttosto elettrica anche se comunque romantica.
Tempo di correre con The Game, che è contrassegnata da un drumming molto sostenuto e da dinamiche quasi furibonde, in una sorta di inseguimento costellato anche dei suoni del synth e del violino.
Ritorna la calma con Home, brano che riprende i concetti sonori più melodici, pur essendo in grado di alzare un po’ la voce quando è necessario. Un po’ più drammatica e anche elettrica, ecco poi Revolution, più gentile che rivoluzionaria.
Your Shadows and I si basa su una tessitura di chitarra, che poi lascia spazio a movimenti più orchestrali, prima che inizi il cantato. Il finale lascia spazio a un po’ di improvvisazione alle tastiere.
Molto sommessa e anche un po’ folk quanto a impianto, ecco Take 7, che mescola pianoforte e armonica a bocca, insieme a un cantato molto “sentito”.
Ci si rianima subito con Wintersend, che ha ritmiche mosse e molto variate, con un certo trasformismo sonoro che si estende per tutti i quasi sette minuti del brano. Compresa un’escursione nel mondo del “bel canto” e della lirica.
C’è il sax a prendersi la scena all’interno di Day by day, uno scorrere lento del tempo e delle note. Parte poi The Journey, estremamente dinamica e vibrante, con le due voci che in questo caso fanno un po’ più che supportarsi a vicenda, differenziando maggiormente le parti.
For every time I waited ritorna su piani di intensità consistente, armonizzando voci, fiati e istinti. Si parla ancora di tempo in Thirty Years, che ha un mood un po’ morriconiano e un piglio abbastanza aggressivo.
Si viaggia verso la fine con Never & Over, capace di tornare sul morbido, questa volta con l’aiuto di un po’ di francese. Il disco si chiude con una certa atmosfera di raccoglimento, regalata da Nothing but an Ocean, che riprende i temi sonori di The Journey.
Lavoro lungo e ricco, quello di Myle: lungo le quattordici canzoni dell’album è possibile vedere un percorso che si snoda lungo gli anni e i suoni, pennellando un affresco a colori molto vivi. Un disco significativo, capace di ritagliarsi un proprio spazio e di preannunciare ulteriori evoluzioni future.
