Naska, “La mia stanza”: recensione e streaming
Naska è tornato, e lo ha fatto con un album, La mia stanza, che sembra essere fatto apposta per spettinare un po’ di quelle playlist di Spotify dove la cassa che batte sa solo di digitale. Qui il suono ha un corpo, si muove sul punk e sul rock come se gli fosse stata cucita addosso un’etichetta e volesse tenersela ben salda.
Si parla d’amore, dei vizi che Milano necessariamente mostra a un giovane artista classe 1997 che arriva da un paese di poche centinaia di anime in provincia di Macerata, di paure e speranze, di prese di coscienza.
E se Diego Caterbetti, il vero nome di Naska, si definisce cantautore, lo si riesce ad accettare con più facilità quando si lascia andare e libera la voce e i pensieri con lei.
Naska traccia per traccia
Nella mia stanza faccio cose peccaminose / rischio sempre di innamorarmi / oppure un’overdose
A Testa in giù inizia tonica e non lascia dubbi su quel che ci aspetta nell’album: testi senza peli sulla lingua (e se li ha potrebbero non essere di Naska), ritmo dall’attitudine rockettara che strizza l’occhio a un punk anni ‘90 che è figlio di tempi che ormai non sono più ma che sono stati fortissimo.
Baci sul collo e sconosciute nel letto fanno solo da cornice a questo delirio da cameretta.
Ma non truccarti / metti i maglioni bucati / non saremo mai come gli altri
Con Mai come gli altri si prosegue sulla stessa scia per quanto riguarda il sound, anche se la protagonista femminile stavolta ha caratteristiche ben definite, così come i sentimenti che muovono la penna di chi scrive. Si va lontano, ci si sente diversi, si respira aria struccata e si indossano maglioni bucati, unici e spettinati. Una generazione, non solo due persone.
Ho la faccia segnata da una notte di merda / E vivo come se c’avessi un fegato di riserva
L’inizio di Non me ne frega un cazzo potrebbe essere tranquillamente di un pezzo a caso dei Blink 182, sarà per questo che al momento del ritornello si lascia andare la mente e si viaggia su chi parla troppo quando sei in hangover e vorresti solo spegnere tutto, soprattutto i discorsi molesti di chi non ti ricordi nemmeno bene chi sia.
Tienimi la mano e poi mandiamoli a fanculo / Di noi non importa a nessuno
A nessuno sembra ascendere a un livello superiore rispetto alla terrestre passione, prova a guardare attraverso occhi nuovi con una raucedine nella voce e una chitarra che non vuole sovrastare ma accompagnare, con una tenerezza sempre vestita di nero e con lo sguardo ammiccante.
Quando non rispondi vorrei fare un casino / perché ho 25 anni ma sono un ragazzino
Al Pronto soccorso sbronzo con i dottori a parlare di te sembra una minaccia o una bellissima dichiarazione d’amore: dipende da che punto di vista si guarda un ragazzo preso male da una lei che è overdose e astinenza insieme. Volevo scopare e non innamorarmi, ma siamo tutti sulla stessa barca, nello stesso mare di lacrime.
Dici che è ridicolo fare sto cazzo di punk rock / che ci resto povero / però poi torni qui
Cattiva è stata singolone, chiama accendini e flash dei telefoni ai concerti e torna all’annosa questione di una lei che prende quel che vuole e lascia senza fiato e senza saliva una volta fuori dalla porta. E se a furia di andar con gli zoppi si finisce per zoppicare a nostra volta, ecco che di cattiveria ci si contagia.
Esco il fine settimana a portare i miei vizi a spasso / o loro portano me
Cronache di una Fottuto sabato in cui tutti ballano e Naska beve cercando di andar fuori: da un locale, da un posto che non è fisico ma anche mentale. Anche qui una generazione che si rifugia in qualcosa che annebbia per dimenticare o per ricordare meglio, che sta in piedi per miracolo ma sa bene che cosa deve fare per tenere botta.
Bella festa, divertente / Scusa devo andare a non fare niente
È poi la volta di Male, una frase fatta, la ricerca di una sensazione quando sembra di non sentir più niente. Così come altri autori della sua generazione, Naska canta il disagio di un tempo, quello che ti rimbocca le coperte la notte prima di dormire, che sembra volerti avvolgere al punto di non lasciar più il fiato per fare altro. Si canta sempre a squarciagola, ma stavolta fa un po’ più male.
Volevi il bello e dannato, ma ci hai guadagnato / sono pure alcolizzato
Meglio smorzare i toni e ributtarla in caciara: Fuori controllo è un manifesto del bello e dannato che è pure alcolizzato, nonché la cosa più punk che hai scopato. Come si può resistere in fondo se tutto questo te lo canta ridendo su una base di cori e pianoforte che rende ancora più interessante il ritmo su cui ci si muove.
Che se poi ci pensi tutto quello che so io me l’hai insegnato tu
Wando è l’ultima traccia, una sorta di presa di coscienza in cui facciamo finta che un sacco di cose siano diverse perché a volte fa schifo vivere. Quello che resta è la musica, quello che ci rimane addosso delle persone che hanno contato qualcosa, i finali in crescendo che spaccano in due e che riescono a far stare nella stessa stanza un giovane ribelle e un animo sensibile chiuso nello stesso corpo.
Ascoltare La mia stanza è effettivamente un po’ come aprire la porta su un mondo, quello di chi l’ha creato. È guardare una faccia di una bellezza giovane e impunita, e nello stesso assaggiare la consistenza dei pensieri e ascoltare il rumore del vuoto di un cuore che ogni tanto sembra perdersi. Sempre e solo facendo un po’ di casino, però.