Omosumo, saper ascoltare
Gli Omosumo ci concedono una (tutto sommato rara) intervista per parlare del loro nuovo disco, omonimo, che esce l’11 novembre e che ripropone il sound del trio formato da Angelo Sicurella, Roberto Cammarata e Antonio Di Martino. Dopo il curioso e notevole caso di Surfin’ Gaza, il gruppo questa volta parla di esodi, concede maggiore spazio e peso alle liriche, mette una misteriosa “Madre blu” in copertina e si addentra in distese elettroniche di grande impatto.
Il vostro lavoro precedente, “Surfin’ Gaza” nasceva da un incontro improbabile tra arabi e israeliani su tavole da surf. Qual è il concetto base di questo nuovo disco?
Il disco parla di un esodo, di una parte di popolazione che decide di lasciare questo posto a fronte di un’altra condizione. Abbandonando qualsiasi tipo di unità di misura, a partire dal concetto di tempo, della divisione degli spazi, di ogni misura e sottomisura, del metro, del litro, fino ad arrivare all’amore.
Avete scelto questa volta di cantare sempre in italiano e, a mio parere, sembra che i testi abbiano guadagnato importanza nell’equilibrio del vostro album. Come è maturata questa svolta?
Abbiamo pensato che questo disco doveva godere di unità anche nella lingua e ci piaceva farlo con la nostra. C’è un’attenzione particolare non solo nella scrittura dei testi, dove abbiamo cercato più che mai di non lasciare niente al caso, ma ci sono anche diverse dimensioni dei testi. Abbiamo collegato tutto anche visivamente.
Se da una parte “madre blu”, la mucca in copertina, rappresenta la nostra arca, dall’altro i testi attraversano simbolicamente delle dimensioni. Vi sono testi di terra, testi di mezzo e testi di cielo. Tutti collegati non solo dal concetto di esodo verso una dimensione sconosciuta, ma connessi simbolicamente l’uno con l’altro. Ve ne accorgerete guardando l’interno del disco, dove è spiegata anche simbolicamente ogni cosa. Parte dei simboli che sono in stretta connessione con i testi, sono anche usciti preliminarmente nella nostra pagina Facebook.
I testi parlano delle sensazioni e delle memorie che sono legate a ciò che si vuole lasciare, svuotati di ogni cosa per lasciarsi riempire dal nuovo, senza la pretesa di portare con sé e altrove la propria esperienza passata, perché quella non conta più o, quantomeno, non così tanto da avere la pretesa di valere necessariamente qualcosa. Pronti quindi a saper ascoltare.
Avete cercato l’isolamento e case di campagna disabitate per realizzare al meglio il lavoro sul disco: potete spiegare i motivi della scelta e come ha influito sul risultato finito?
Più volte ritorniamo alla campagna come luogo in cui possiamo godere di una certa introspezione e di momenti di improvvisazione senza luogo e senza tempo. La campagna ci porta in un mondo sempre nuovo e non ci obbliga a orari o a incontri che deviano il tuo grado di attenzione sulle cose. Le poche distrazioni che avevamo erano un paio di cavalli o due tre pecore, due cani, qualche gallina. E questa dimensione di ritiro ha influito molto sulla nostra concentrazione. Ci ha condizionato parecchio.
Omosumo: momenti fondamentali primitivi
Come nasce “Sui tramonti di Seth”, secondo me il pezzo più ambizioso del disco?
Sui tramonti di Seth è un brano che ha subito parecchie evoluzioni. Ci siamo ritornati più e più volte e in più direzioni, fin quando non abbiamo trovato quella giusta che ci ha portato a sintetizzare il linguaggio ritmico in un modo e quello strumentale in due momenti fondamentali entrambi primitivi, con un aspetto evocativo, sciamanico e presagistico.
Potete raccontare la strumentazione principale che avete utilizzato per suonare in questo disco?
Abbiamo unito il vecchio e il nuovo, sintetizzatori moderni e drum machine di ultima generazione, batterie acustiche sintetizzate, piani Rhodes, organi e amplificatori e strumenti degli anni ’60 e ’70.
Ho ben presente che avete dichiarato un’esigenza di “derattizzazione” dal mondo musicale di oggi… ma vorrei chiedervi chi è o chi sono gli artisti indipendenti italiani che stimate di più in questo momento e perché.
Quando abbiamo deciso di cominciare a scrivere, abbiamo sentito l’esigenza di chiuderci in noi per andare oltre quello che sapevamo fare. Sembra ed è un progetto ambizioso. Volevamo stare lontani dal condizionamento degli ascolti e non volevamo che il solito europeo di turno e in voga ci dicesse quale fosse l’ultimo suono alla moda da utilizzare da farti dire dall’italiano di turno che è figo perché suona europeo.
Volevamo partire da noi, da quello che sappiamo fare e da quello che avremmo scritto al di là di quello che passa il convento. Ci siamo chiusi per confessarci quello che volevamo scrivere e con gli strumenti che avevamo. Molti suoni sono frutto di una ricerca e di un ragionamento artigianale. Alcuni nati pure per errore. Per il resto non siamo molto contenti della scena italiana e non crediamo si possa parlare di vera e propria scena indipendente.