Primo maggio in tv: una sorta di report

Dai non si fa. O almeno se si fa, non si dice. Cosa vuol dire fare il report di un concerto visto in tv? Probabilmente niente (esatto, la foto è rubata dalla pagina Facebook del Concertone). Ma visto che quest’anno al Concertone del Primo Maggio di Roma transitano tantissimi dei protagonisti costanti di queste pagine, noi un occhio ce l’abbiamo buttato.

Ed è chiaro che dalla tv mica cogli le sfumature, noti solo quello che la regia vuole che tu noti, sei lo spettatore di uno show tutto in mano altrui, mentre in concerto orecchie e occhi scelgono da sole che cosa cogliere. Ma siccome la musica in tv per anni in questo Paese è rimasta morta e ora sembra avere un minimo di risveglio, soprattutto con l’attenzione a una nuova generazione musicale che ha parecchio da dire, noi ci si prova. E questi sono i pensieri sparsi in merito.

Si parte con una “mista” sul palco: Pinguini (con cantante a sorpresa), Eugenio, Lemandorle, Ex Otago più varie ed eventuali salutano il pubblico con una versione a loop di Centro di gravità permanente, omaggio a Battiato, forse non il più primomaggesco dei cantautori, ma sicuramente presenza stabile negli ascolti di molti degli artisti in scena oggi.

Poi arrivano i conduttori, e Ambra è subito inutilmente verbosa: a lei è riservata tutta la parte retorica che inevitabilmente questo festival si porta dietro da sempre. Lodo Guenzi si occupa della parte musicale (dovrebbe esserci soprattutto quella, a dire il vero), sottolineando come chi suona qui oggi non sia più “emergente” ma protagonista della nuova musica popolare italiana. E via di elenco dei più attesi.

Dopo altre verbosità ringraziose di Ambra, ecco LaRua. Sono quelli che, in spirito molto indie, paragonano la propria relazione al Parma di Malesani (quello di Scala evidentemente è maintstream). Un pazio di pezzi sufficientemente energici ed ecco poi Ylenia Lucisano, vestito rosso e rivendicazione pro-donne (“Non è vero che siamo poche perché oggi siamo tutte donne!”: reazioni perplesse nel pubblico), e una canzone non centratissima con il contesto.

Tocca poi ai vincitori dei concorsi: cambio di atmosfere con Giulio Wilson, formazione allargata con beatbox (ma anche qualche problema di audio che limita un po’ la performance). Passa l’rvm di Walter Celi, tastiera, voce e tromba sul palco, per sensazioni piuttosto intense e internazionali.

Lodo, che saluta tutti con “ciao regaz”, presenta poi I Tristi, trio voce/synth+batteria+basso, che comincia discorsi veramente “indie” con sonorità più vicine al contemporaneo, ma anche ricche di influenze Bluvertigo.

Rvm di sintesi anche per Ferdinando, di nero vestito e un po’ tangheggiante. Capelli rosa e voce potente per Margherita Zanin, su atmosfere cantautorali benché la formazione sul palco sia con doppia chitarra e basso.

Dopo il ricordo di Toni Soddu, direttore del Concertone dal 1990 all’ultima edizione e scomparso all’età di sessant’anni, e dopo la premiazione de I Tristi come vincitori di 1MNext, Lodo presenta con relativo entusiasmo il contest sulla sicurezza stradale.

Si parte (davvero) con Fulminacci

Ed ecco che si inizia a entrare nel vivo con Fulminacci, solissimo sul palco con la sua chitarra acustica, senza spazio per un’emozione nella sua Borghese in borghese, torrenziale e quasi percussiva, molto “silvestriana” ma anche molto calata nel cantautorato del 2019. Ce ne starebbe anche un’altra, ma perché non dare spazio alle considerazioni di Ambra e Lodo sulla pioggia che ha aperto un po’ di ombrelli?

Arriva poi Eman, impermeabile con un po’ di disegni, vaga somiglianza con Brian May e una certa aggressività malinconica per una Giuda ben bilanciata e anche piuttosto trascinante.

Si comincia a ballare un po’, sotto gli ombrelli, con Ti amo il venerdì sera de Lemandorle, ai quali è concesso il bis con Da sola: la performance è molto elettronica e anche abbastanza elettrizzante. Il trio dimostra di essere pronto anche per palchi importanti come questo.

Altro inciso di carattere sindacal-femminista, poi parte Izi, primo indizio di trap. Vestito un po’ come Supermario Bros, saltella agile con Dammi un motivo, portata avanti in modo incisivo, poi invita a divertirsi e a non badare ai giudizi. E quindi sorprende con una cover di Dolcenera di De André, resa forse perfino più noir dell’originale (per la cronaca, lui non c’era nella compilation Faber Nostrum, e neanche Dolcenera, intesa come canzone, ma pensandoci bene anche come cantante. Insomma ci siamo capiti). Uno dei più convincenti fin qui, per la cronaca.

La Rappresentante di lista entra in scena. Si potrebbe sospettare che il sofisticato combo che fa perno su Veronica Lucchesi e Dario Mangiaracina potrebbe trovarsi fuori luogo su un palco così grande, su una piazza così vasta e dispersiva, non adatta alle sfumature. Dubbi che durano tipo tre secondi: un recitato introduce Questo corpo, e l’energia inizia a fluire, insieme a sensazioni che viaggiano tra pop e rock, ma con fiati, teatralità e rabbia.

La memoria corre a una performance notevole, qualche anno fa, dei Quintorigo in formazione originale, proprio su quello stesso palco: diverse le sonorità ma simile l’amalgama e l’impatto. La band bissa con Maledetta tenerezza, un po’ meno tesa e un po’ più divertita, con qualche svisatina sintetica (sulla voce di Mangiaracina, vestito color salmone con cervo volante all’occhiello, si svisa anche un filo troppo), mostrando il lato dance della band.

Ambra con il piumino, Eugenio con il cubo

Ambra esce col piumino, cioè simpatica la maglietta, ma a una certa… E Lodo prova a risolvere un cubo di Rubik, ovvio preavviso degli Eugenio in via di Gioia (Eugenio, per chi non lo sapesse, è solito risolvere il cubo mentre canta e suona): le scelte della band torinese sono piuttosto acustiche, con un set che parte con Prima di tutto ho inventato me stesso.

Come i cubetti del cubo, le parole degli Eugenio trovano gradualmente i posti giusti, con un ritmo sciolto e disinvolto che porta, senza soste, a La punta dell’iceberg, le cui tematiche ambientaliste sono espresse con forza e ironia. Le centinaia di concerti alle spalle della band si sentono tutti: passati dai micropalchi dei locali di provincia a questo megapalco non perdono minimamente il passo. Come dimostra la trascinante versione di Altrove, tratta dall’ultimo lp Natura viva, che ruota sul giro di basso e conquista i cori della folla.

Ambra prima dichiara di non essere una rockstar (eppure, voglio dire, T’appartengodove la vogliamo mettere?), poi parla dei fatti di Torre Maura, e poi ecco Bianco e Colapesce, con una band particolarmente numerosa e anche abbastanza rockeggiante, su Punk Rock con le Ali. Colapesce sarebbe qui in veste di “featuring”: suona la chitarra, una delle tre sul palco (più basso, tastiere e tromba).

Una delle chitarre si trasforma in violino e parte Ti attraverso, e a questo punto le parti nel cantato si invertono ed è il cantautore siciliano (un filo giù di voce, ma sarà la pioggia) a prendere il centro della scena. De André torna anche in questo caso, con la Canzone dell’amore perduto, questa sì già sentita in Faber nostrum. La versione a due voci manca forse un po’ di nerbo, probabilmente sarebbe stato meglio riservarla a piazze figurativamente più intime.

I problemi dei rapporti con le banche sono ridotti a gag dai conduttori, prima che salga sul palco Dutch Nazari. Occhiali da sole quadrati e camicia di jeans aperta, un look e un cantato che fanno pensare al Vasco d’antan, il pezzo d’apertura è Calma le onde, che fa stridere tutte le contraddizioni del presente con buona gestione del palco.

Dutch è il primo a dialogare effettivamente con il pubblico (gli altri non hanno neanche avuto il tempo, a dire il vero), cita i Blues Brothers prima di partire con i colori di Guarda mamma senza money. A sorreggere il suo fraseggio fitto la base e una sezione ritmica batteria-basso, con la voce a occupare quasi tutti gli spazi melodici, per un’esibizione scarna e diretta.

FASK, La Municipàl e Pinguini

Le conduttrici radiofoniche di Radiodue salgono sul palco per annunciare i Fast Animals and Slow Kids. Il lungocrinito Aimone prova a scaldare la folla fin da prima della partenza di Radio radio, singolo così nuovo che uscirà ufficialmente soltanto poche ore dopo il concerto. Come ci si poteva aspettare, qui il suono mette da parte il synth, il pop e ammennicoli vintage per puntare su un set robustissimo e così rock e così internazionale che il già citato Aimone è vestito tutto di nero ma con i calzini bianchi. Il pezzo cita Battisti, proseguendo così nella teoria di link con i cantautori classici, una costante per tutto il Concertone.

Il singolo precedente invece è Non potrei mai, che arriva subito dopo. Ritmato e con grosse incisioni di una lucida chitarra Gretsch, il brano certifica come il gruppo perugino sia pronto per un salto di popolarità ulteriore, probabilmente in arrivo con il prossimo lp. Aimone poi annuncia una “tamarrata seria” e chiama Lodo sul palco con una Telecaster. Ed ecco un accenno, un filo sghembo, di My Sharona (e per Dio che non vada persa la maglietta di Lodo “Greta Thunberg is the new Elvis”). Si chiude con un “Che Iddio benedica il rock and roll” che ci sta sempre bene.

Eva Stoccolma e il godfather di tutti i giornalisti musicali Gino Castaldo introducono una particolarmente incazzata versione de La Municipàl: pure loro tutti vestiti di nero, i fratelli Tundo aprono con Major Tom, molto più dura qui che su disco. E si passa rumorosamente a Finirà tutto quanto, la cui carica negativa si tramuta in un’onda elettrica molto intensa. Unica “vittima”, la voce di Isabella, che probabilmente per problemi di mixer, qui va quasi del tutto persa.

Ma la stessa Isabella invita a celebrare la festa e coglie l’occasione per raccontare che la band è rimasta vittima di un furto stamattina e ha dovuto farsi prestare le pedaliere da La Rappresentante di Lista. Incidenti di percorso superati per mettere in pista anche George (il mio ex penfriend), quasi britpop e con momenti esplosivi.

Bebe Vio accompagna Lodo e Ambra per annunciare i Pinguini Tattici Nucleari, accolti da opportuna ovazione. Verdura è l’apertura tranquilla e un po’ reggae. Un po’ di Vasco e un po’ di Jovanotti filtrano fin sotto il cappello di Riccardo Zanotti per una delle canzoni più coinvolgenti del gruppo bergamasco, benché molto recente.

Meno recente Irene e la sua faccia strappata (“una canzone che ci ha permesso di fare questo lavoro qualche anno fa”). La pioggia cala e si vedono nelle prime file tantissimi ragazzi che ballano e cantano a memoria le canzoni di questi ragazzi, arrivati fino alla Sony sull’onda di milioni di views su YouTube. Cuoricini con le dita ma anche parecchia chitarra a chiudere l’esibizione.

Coma_Cose, Canova, Otaghi e molto rap

E’ lo stesso Pinguino Zanotti ad annunciare i Coma_Cose, vestiti come dei Blues Brothers che hanno rapinato un negozio di bomber. Si apre con Jugoslavia, leggermente accorciata e forse non centratissima. Ma è un riscaldamento: già Post Concerto riporta a galla tutta la forza fresca di questo duo che due anni fa non esisteva e che ora si trova a far cantare una piazza che può spaventare chiunque.

Ma al netto di qualche comprensibile sbavatura i due se la cavano alla grande, anche con scelte di scaletta non esattamente improntate alla popolarità immediata: prima San Sebastiano e le sue frecce e poi Mancarsi, qualcosa di simile a una ballad, comunque un po’ urlata dal triangolo rosso che che si incunea nella folla. Se la ridono anche un po’, Fausto e Francesca, mentre si guardano gli occhi rossi come quelli dei conigli bianchi.

Il palco rotante gira ancora, ed ecco i Canova, vestiti e pettinati come i Beatles, che fanno saltare subito il tappo con Expo, rockissima e tirata a lucido. Mobrici si vanta di aver portato il sole (un gruppo milanese può portare un sacco di roba a Roma, ma i bucatini, il papa e il sole ce lo mettono loro, a Matte’). Slide guitar e tastiera per una molto più composta e malinconica Per te.

“Non potevamo essere qua senza fare una canzone” dice Mobrici, annunciando Threesome, con il racconto alcolico e vagamente sensuale della canzone che acquista energia dalla piazza. Se qui e là nell’ultimo disco sembrava che parte della sfrontatezza della band fosse andata smarrita, l’esibizione live cancella i dubbi.

Tocca a Rancore, accompagnato da L’Orquestra con la maschera da spaventapasseri che tempesta la piazza di rime senza fiato, tanto che finge di prendere ossigeno per portare a termine Beep Beep, sorta di record di velocità. Più tranquilla Arlecchino, che il rapper stesso definisce come un collage di citazioni. Ed è un collage anche nello spirito almeno finché non prende fuoco, con Rancore incappucciato che quasi sfonda la quarta parete a furia di versi e di zompi.

Sangue di Drago ha un’intro raccontata e “favolistica” che in realtà è una chiara liason con la realtà politica attuale. Il cantastorie Rancore porta avanti la propria favola piena di spigoli.

Atmosfere molto più soft quelle evocate dagli Ex-Otago, che arrivano tutti con i pantaloni bianchi, come reduci da un party a Montecarlo. E se la giocano in salsa tropical, con La notte chiama. Molto pop, forse troppo, visto il contrasto con il taglientissimo Rancore che ha appena mollato il palco. Più picchiata Tutto bene, che comunque mantiene l’allure danzereccia. E poi via, anche perché parte del tempo a disposizione è stato esaurito dalle intro dei due pezzi.

Piuttosto pesce fuor d’acqua rispetto all’apparato indie, ecco Anastasio, che comunque mette su un’armatura robusta e blues per la verghiana Rosso Malpelo. La fine del mondo fa seguito: partenza morbida e passo che si affretta subito dopo. Il ragazzo si incazza facile e anche se il suo rap ha sapori un po’ vecchiotti non si può non apprezzare l’energia e la passione che ci mette.

Il rapper dice che aveva scritto un discorso da ribelle per finire tra quelli censurati da Raitre (che, a dire il vero, ha una storia tendenzialmente di marca opposta) ma che l’ha messo da parte perché oggi si celebrano i lavoratori e non il protagonismo degli artisti. Gliene siamo grati.

La più importante rock band di questa generazione

Si leggono, come ogni anno, i nomi dei lavoratori morti, ed è doveroso, anche se sembra un po’ un discorso rituale e obbligato. “La più importante rock band della mia generazione” è invece la presentazione di Lodo, degna di menzione, per The Zen Circus, naturalmente. Appino già ride prima di salire sul palco. Lui e Ufo sono passati (male) dal parrucchiere, il che non evita loro di partire con Andate tutti affanculo (anzi Andate tutti *******, come sostiene la grafica Rai). L’energia è la solita, l’armonica a bocca è al suo posto, certo forse qui il pubblico è un po’ più eterogeneo del solito e non tutti riescono a cantare le strofe finali del brano, ma è un problema relativo.

Ilenia segue con molta elettricità, ma qui la piazza non è né vuota né muta. In effetti la rivoluzione non sembra proprio imminente, ma gente che salta ce n’è parecchia, per una band che nell’arco di un paio d’anni ha mietuto quasi tutti gli onori che si sarebbe meritata già nel corso degli anni e degli album precedenti.

Si chiude il set con L’anima non conta, con il torrente di parole che rappresentano uno degli apici emozionali dei concerti del gruppo e tutto sommato anche di questa giornata. La ricerca del decoro prospettata dal brano si scontra con i pezzi scoloriti della chitarra di Appino e con la rabbia per nulla di facciata che gli Zen sanno tradurre sempre in un live potente e diretto. Abbraccio e bacio in bocca fra il medesimo Appino e Lodo chiudono la performance.

Ghemon conferma la propensione ai look discutibili già dimostrata a Sanremo, ma voce e carica funk di Un temporale fanno sì che ci si possa anche distrarre dall’improbabile palandrana portata sul palco. Il classicone Criminale emozionale ammanta ulteriormente l’atmosfera di black e certifica la trasformazione ormai ultimata da “rapper” a “cantante”.

La formazione “princeana” include anche un paio di coriste, che però non rischiano di fare ombra alla vocalità di Ghemon. Probabilmente la sua performance avrebbe tratto giovamento, più di altre, da luci più basse e sera iniziata, ma è un ostacolo minimo, come confermato dall’ottima prova su Rose viola.

Siparietto di Ambra per introdurre il suo ex Omar Pedrini (a proposito, con Renga come siamo messi?): il look del vecchio leone meriterebbe qualche paragrafo ma ci limitiamo a citare occhiali da sole rossi, giacca rubata a un ufficiale unionista della guerra civile americana, capello fluente e maglietta grazie alla quale proclama di essere un bresciano malmostoso. Ma purtroppo la pausa televisiva stronca a metà Sole spento.

Si riparte da Noel

Quando si riparte sul palco c’è l’arpista Micol che fa cantare il pubblico, ormai zuppo, con una versione energica di Bella ciao. Prima di far entrare Noel Gallagher & High Flying Birds (che Lodo trasforma in “His Flying Birds”, ma va be’). Dal punto di vista della scaletta questa è proprio l’ospitata da cartellone, con l’unico nome straniero in un concerto tutto italiano.

Il brizzolato Noel si presenta in formazione robusta ma anche molto melodica, con lo stemma del Manchester City in bella evidenza. Il songwriter ex Oasis fa riferimento soprattutto al suo songbook più recente, per esempio con Holy Mountain, energica e ricca di fiati. Piuttosto ieratica e composta It’s a Beautiful World, tratta dall’ultimo Who Built the Moon?

Poi, dopo aver confermato che più invecchia più assomiglia, anche come stile, al suo maestro Paul Weller, parte lo spazio nostalgia con Wonderwall, eseguita con la chitarra acustica, con lo sguardo un po’ schifato ma anche con trasporto accettabile. Accorata la seguente Stop Crying Your Heart Out, con il pathos che aumenta nel crescendo. Si chiude con l’omaggio ai Beatles, e a Lennon in particolare, grazie a All You Need is Love.

Siparietto interminabile dei due presentatori prima dell’arrivo di Carl Brave, esponente principe della nuova scena romana. L’inevitabile camicia fiorata lo aiuta a calarsi nelle atmosfere di Chapeau. E se Ladispoli pare Rio de Janeiro, Carl ci mette trenta secondi a prendersi San Giovanni, anche se la vocalità non è proprio impressionante. Ma contano anche i testi, l’interpretazione, il non detto, come in Fotografia.

La band è nutrita e l’atmosfera un po’ da clubbetto di periferia, anche se i fiati fanno un po’ di rumore su Camel Blu, altro classico. Poi chiede le luci dei cellulari per rischiarare Merci, qui in versione un po’ alternativa e sghemba. Ed eccoci a Noccioline, ritmata e molto veloce. Introduce cantando a cappella Posso, con il coro del pubblico. Gazzé sta in un altro primo maggio, ma il biglietto è sempre lì, pluritimbrato. Si chiude con Malibù, festosa e molto bailata.

Manuel Agnelli, Ilaria Cucchi, Daniele Silvestri

Molto lunga e piuttosto personale, ancorché buttata in vacca dall’imperdonabile Ambra, la presentazione da parte di Lodo di Manuel Agnelli, con il fedele Rodrigo D’Erasmo. In isolamento e con qualche problema tecnico da risolvere, Manuel parte cattivo, con Ballata per la mia piccola iena. Il livello di intensità schizza subito altissimo, anche se il pubblico risulta un po’ spiazzato.

Parla di speranze tradite venticinque anni fa prima di partire con You know you’re right, non proprio la scelta più ovvia se vuoi fare una cover dei Nirvana. Ma “ovvio” questo signore non riesce a esserlo neanche se compra un paio di calzini. La voce si spezza almeno quanto si distorcono le corde del violino elettrificato di Rodrigo. Quello che non c’è parte senza introduzione: il bambino e la sua pistola sono ancora lì, si aggiunge un po’ di vocalità extra. Tanto scarno quanto gigantesco l’effetto.

Cita Flaiano che parla di libertà e sovversione, loda la piazza e la partecipazione, poi mette lì Non è per sempre. E la chiusura è con un’altra cover, ma un po’ più nota, anche se forse non alla piazza, molto young: Perfect Day di Lou Reed, piano, violino e poesia. E poi Manuel, con la sua giacca fiorata, lascia il palco.

Ambra introduce Ilaria Cucchi, che riscuote un’ovazione che fa bene al cuore. Il momento dedicato alla vicenda terribile e significativa della morte di Stefano permette alla conduttrice di mostrare il proprio lato migliore e più composto.

Poi arriva Daniele Silvestri con un numero spropositato di musicisti (ci sarà una dozzina di persone sul palco, tra cui alcuni esimi come Viterbini, Monterisi, Rondanini) per Scusate se non piango, title track del nuovo album che uscirà fra un paio di giorni. L’atmosfera da big band è molto coinvolgente, quanto il loop ritmico nel quale la canzone è iscritta.

Si resta su toni allegri con Gino e l’Alfetta, un po’ psichedelica e un po’ elettronica. Dedica all’Angelo Mai (che in contemporanea sta facendo una sorta di controconcertone tutto al femminile) prima de La mia casa, canzone per viaggiatori e per europei che apriva Acrobati. Ecco poi la “sanremese” Argentovivo, nella quale torna Agnelli, coatore del pezzo, per l’intermezzo “lirico” già apprezzato al Festival. E ovviamente risale anche l’incappucciato Rancore a rendere l’impatto del pezzo quasi da mini opera rock.

Silvestri saluta gli ospiti e dichiara che bisogna sdrammatizzare, così parte la stornellante Testardo. E quando il pubblico risponde all’invito cantanto “de li mortacci tua” risponde con un classico “E so’ soddisfazioni”.

Subsonica & Gazzelle (e un po’ di Willie)

Arrivano i Subsonica e non sono soli: su L’incubo Samuel duetta con Willie Peyote, che regge bene l’impatto. Poi parte Veleno, e la situazione si fa piuttosto acida. Anche se si inizia davvero a saltare con Liberi tutti e con il Boosta che inizia a far oscillare le tastiere. A sorpresa entra Daniele Silvestri a rappare il finale del pezzo.

Si accelera ulteriormente con Il Diluvio, molto luccicante e con Samuel che fa saltare il pubblico. La chiusura è ipercinetica con Tutti i miei sbagli e la sua aura quasi noir. Se su disco qualche giro lo ha probabilmente perso, il gruppo torinese dal vivo ha ancora parecchie carte da giocare e se le gioca alla perfezione.

Dieci anni fa a suonare verso le 22 ci sarebbero stati gli stessi Subsonica, ma anche Manuel e gli Afterhours, magari i Marlene Kuntz che stasera non ci sono.

Ma i tempi cambiano ed ecco Gazzelle, biondo come da recenti testimonianze social, mani in tasca, che parte con Punk, title track dell’ultimo disco. Voci, soprattutto femminili, del pubblico, cantano parola per parola. Lui, dietro gli imprescindibili occhiali neri, la appoggia lì e avvolge tutta la piazza della malinconia post-rottura che caratterizza gran parte della sua produzione.

Flavio dialoga con la città prima di far partire Tutta la vita, che ha i toni della ballatona. Tutta la vita davanti a un bar oppure davanti a un sacco di gente che conosce i suoi testi: la faccia imperturbabile, la voce composta da cantore dei giorni nostri. Curioso che il primo assolo di chitarra di tutta la giornata parta proprio qui. E lui continua a parlare con i suoi “regà” e giustamente ricorda non soltanto i lavoratori, ma anche quelli che un lavoro non ce l’hanno. “Daje forte regà”.

“Lei” non torna, e questo è un fatto acclarato anche all’interno di Non sei tu, che ha scelte tutte acustiche. Ma tutto con Gazzelle risulta molto coinvolgente e molto genuino, tanto che gli scappa anche un “Ciao mamma” finale.

Arriva la trap (più o meno): Achille Lauro e Ghali

Ambra ritiene di presentare Achille Lauro traducendo Rolls Royce in tedesco, e avrà i suoi motivi. Tuttavia Achille, vestito come i New York Dolls sotto acido, parte da Cadillac: come da recente svolta il set ha suoni del tutto rock’n’roll. E del resto ha fatto di tutto per confermarlo anche con la band scelta per accompagnarlo: con lui Federico Poggipollini (Ligabue e mille altri) con la sua Diavoletto, Sergio Carnevale (Bluvertigo) e Garrincha (Vibrazioni), peraltro in gonna lunga. C’è anche Boss Doms, pelliccia rosa maculata e ciuccio in bocca, per dire della sobrietà.

I successi del passato recente comunque non sono spariti: ecco un accenno di Thoiry, che fa zompare tutta la piazza. Poi chiede di spegnere i cellulari (Achille, serio?) e “vi chiederei anche di togliere i vestiti ma non è il caso”. Ecco 1969, molto rock e molto Vasco di venti-venticinque anni fa. Picchia duro con un riff totalmente Seventies la seguente Sexy Ugly. Poi via con C’est la vie, il pezzone strappamutande ma anche il lentone commosso.

“Ce ne andiamo con un superclassico” dice annunciando Rolls Royce. Ed è un pezzo che ha neanche tre mesi, ma la cosa curiosa è che ha ragione: la canzone ha inciso sulla popular music italiana come non succedeva da decenni. Lui la canta quasi con scazzo, tranne quando si tratta di avvicinarsi al pubblico e cantare con loro. Dando fuoco a centinaia di cuori di carta, quelli del pubblico, adorante. Più che punk il ragazzo stasera si è presentato in toni glam, ma dire che anche stavolta ha spaccato sarebbe limitativo.

Tocca a Ghali, che pur partendo da punti di vista non poi lontanissimi da quelli di Achille, è approdato a conclusioni completamente diverse. Come dimostra Wily Wily, con cui apre il proprio spazio. Il suo completo salmone è quasi sobrio rispetto a quanto visto prima. Le sue sonorità con sapori orientali formano un tappeto omogeneo in pezzi come Ricchi dentro o Cara Italia. La sua periferia milanese non è poi tanto lontana da questa piazza romana, e i problemi sono spesso i medesimi, come conferma anche la sua recentissima I love you, dedicata ai problemi dei carcerati e degli ex carcerati.

Si chiude con Motta e i Negrita

Archi anche per Motta, che parte da Del tempo che passa la felicità. Camicia aperta sul (magro) petto e già una certa dose di energia. Quello che è, con buona approssimazione, il migliore fra i giovani cantautori d’Italia occupa subito il palco in lungo e in largo, con personalità e capacità da performer da non trascurare.

Si mette anche a tambureggiare con Roma stasera, abbastanza alienata, tra psichedelico e acido, estremizzata nelle sue crude nudità. Qualche concessione alla melodia arriva inevitabile con Dov’è l’Italia, qui sicuramente più rock e più ricca di contrasti rispetto alla versione dell’Ariston.

La nostra ultima canzone addolcisce ulteriormente i toni, nonostante la minacciosa chitarra acustica nera che Motta brandisce. Ed è effettivamente l’ultima canzone per il cantautore toscano, che poi accoglie sul palco Dori Ghezzi, che gli consegna la targa del premio Siae.

I Negrita continuano a mescolarsi bene, da veterani, fra gli emergenti: la porzione di concerto a loro dedicata parte con Il gioco. Pau ha un cappotto che probabilmente si è fatto prestare da Ghemon, e ce ne sarebbe da dire anche per altri look sul palco. Un po’ di pop e di Tropici filtrano grazie a Rotolando verso sud. Parecchia chitarra e un po’ di balletti sul palco, prima che parta Gioia infinita, che tutto sommato condivide i presupposti del brano precedente. Ultimo pezzo Mama Maé, più blues e incisiva.

A chiudere la porta della piazza ci pensa l’Orchestraccia, formazione aperta composta da veterani della musica che offrono un’adeguata sigla finale alla serata.

Non facciamo i tifosi

Non facciamo i tifosi, che non è elegante. Ma se Sanremo era stato un buon primo indizio di sdoganamento per la “nuova musica popolare italiana”, che ha tantissime facce diverse e anche qualità diverse, qui è arrivato il secondo indizio. Per certi versi anche più significativo.

Poi questo, sia ben chiaro, è stato soltanto un assaggio: tre-quattro canzoni a testa per gente con già una discografia significativa è veramente roba da poco. Tra l’altro affogata spesso nel chiacchiericcio televisivo: al netto delle opportune considerazioni sul lavoro e dei messaggi degli organizzatori del concerto, che sono pur sempre i sindacati, non si capisce perché quando la musica, di qualunque genere, passa in tv, e in Rai in particolare, sia necessario infarcirla di retorica. La rende davvero più digeribile, nel 2019? Siete così sicuri, dirigenti Rai? E che dire di voi, amici autori?

Come dimostrato più volte durante il concerto, l’utilità dei conduttori è quella di catturare soprattutto i titoli su Repubblica e Corriere, che hanno un pubblico composto soprattutto da lettori che, qualora dovessero accendere su Raitre per guardare il Concertone, cambierebbero canale in cinque secondi. Poi i siparietti di Lodo sono stati anche carini spesso, ma diciamo non così indispensabili.

Indispensabile è la musica, come ricordano bene i ragazzi rimasti sotto la pioggia tutto il tempo, da chissà quale ora fino al termine del concerto. E magari tornando verso qualunque sistemazione per la notte avranno trovato ancora la forza di cantare le canzoni preferite. Per citare uno di queste parti, che sia loro dolce anche la pioggia nelle scarpe.

Si potrebbe anche fare la conta degli assenti (raga, ma qualcuno ha visto Calcutta? E che giustificazione aveva per non esserci?), oppure le donne, ma pare che di questo argomento si sia già dibattuto a lungo. Meglio parlare di chi c’era, o almeno noi abbiamo scelto così.

E comunque ok, non facciamo i tifosi, ma tutti ‘sti ragazzi saliti sul palco in faccia a un’enormità come piazza San Giovanni, in diretta nazionale, in uno degli eventi musicali principali italiani e non solo, hanno alle spalle una tale mole di concerti e un’esperienza di musica “vera”, nata davvero dal basso, da poter reggere benissimo anche un evento come questo. Provate a riempire un palco del genere con quelli usciti dai talent, se siete capaci.

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Fabio Alcini