Con l’umile ma malcelata ambizione di fornire ai lettori di TRAKS qualcosa di “diverso”, che si possa leggere accanto, insieme, sopra e sotto la musica che accompagna le nostre giornate, questo agosto abbiamo deciso di proporre o riproporre alcuni articoli monografici che abbiamo scritto in passato, per lo più su altre testate, e che non volevamo andassero persi. Letture estive, ma anche per ogni stagione.

In città, ti costruisci un linguaggio pieno di circospezione e di tatto, di mille piccole implicazioni, di sfumature che hanno il baluginio del bronzo lucidato. Poi vai nel deserto e dimentichi tutto, ricadi in un balbettio confuso, mangi cappelle di fungo che implodono nel cervello, che ti danno una coscienza e un timore soprannaturali,
trasformandoti in un uccello azteco

don de lillo, “underworld”

Se il country non vive isolato nella propria riserva americana, tra violini e slide guitar, lontano da tutti gli altri generi è perché, a partire dagli anni Sessanta, alcuni artisti hanno provato, come agenti in fuga, a sottrarne i segreti nottetempo e a farli dialogare con gli altri generi, prima di tutto il rock.

È vero che il country è uno dei due padri fondatori del rock’n’roll, insieme al blues, ma è anche vero che dopo la fusione fredda tra il genere nero per eccellenza e il super-bianco del sud degli States, ognuno era tornato a navigare dal proprio lato del Mississippi. Almeno finché alcuni personaggi non hanno forzato il country fuori dalla riserva, fregandosene della purezza delle origini e contaminando influenze e sonorità.

Fra i personaggi che hanno provato questo tipo di operazione uno dei più singolari è stato senz’altro Gram Parsons. Ingram Cecil Connor III, come suggerisce il nome e il numerale romano, non era affatto nato da una famiglia di spiantati: figlio di un eroe di guerra e di una ricca ereditiera, ebbe un’infanzia agiata e anche la possibilità di studiare a Harvard. Ma come i vieti luoghi comuni ricordano sempre, ricchezza non significa in automatico felicità: i parenti erano entrambi depressi, ed entrambi alcolizzati.

Il padre di più, tanto è vero che arrivò a suicidarsi, due giorni prima del Natale del ’58. La moglie, prima di morire a propria volta di cirrosi, si risposò con Robert Parsons, che darà al ragazzo il proprio cognome. Intanto Gram cresceva, e scopriva il rock’n’roll.

Era il 22 febbraio 1956 quando, come un’epifania, a Waycross in Georgia gli apparve in concerto il Re: uno sfolgorante Elvis Presley ventunenne, con tutta la carica provocatoria della sua musica e della sua immagine. Gram capì subito che la propria strada era quella e iniziò a frequentare le band giovanili che all’epoca spuntavano come funghi.

Entro i sedici anni faceva parte della prima band professionale, The Shilos, con cui suonava nei caffè. Quando The Shilos si sciolsero, Parsons partì per Harvard, dove si iscrisse a teologia (!) ma durò un solo semestre. A Harvard però incontrò la musica di Merle Haggard, il primo cantautore country a interessargli sul serio, e di lì a poco formò un nuovo gruppo, The International Submarine Band.

La band si trasferì da Boston a Los Angeles, firmò un contratto con la LHI Records di Lee Hazlewood e iniziò a lavorare al disco Safe at Home, che però non uscì che nel ’68, quando il gruppo era già sciolto. Ma il talento di Parsons non era passato inosservato: a fine ’67 David Crosby e Michael Clarke avevano mollato i Byrds, in cerca di altre avventure. Così il bassista della band, Chris Hillman, aveva contattato Parsons per sapere se era interessato a un provino.

Fu reclutato, sulle prime come pianista, ma presto anche come chitarrista ritmico e cantante. Parsons era a bordo quando Roger McGuinn concepì un disco che avrebbe dovuto spaziare per tutta la storia della musica americana, The Sweetheart of the Rodeo, ma che finì per essere sostanzialmente un disco country, con un paio di composizioni di Gram come One Hundred Years from Now e Hickory Wind. Ma il ragazzo era ancora sotto contratto con la LHI Records, che minacciò azioni legali contro i Byrds: McGuinn sostituì la voce di Parsons con la propria su tre canzoni e Gram non la prese benissimo.

Anzi, era ancora piuttosto incazzato cinque anni dopo, come dichiarò in un’intervista del ’73 con Cameron Crowe, il futuro regista, all’epoca giornalista di Rolling Stone. Ci dev’essere stata anche questa delusione alla base della scelta di lasciare i Byrds, durante il tour in Inghilterra del ’68, ufficialmente per opporsi alla decisione di andare in tour anche in Sudafrica, dove vigeva l’apartheid. Il tour inglese fu l’occasione anche per stringere contatti con Keith Richards e Mick Jagger; Parsons divenne amico e compagno di bisbocce soprattutto di Richards, che riconoscerà sempre il debito di riconoscenza nei confronti del ragazzo americano: gli aveva fatto scoprire dischi di country che ne avrebbero profondamente influenzato lo stile.

Tornato in America, Parsons formò The Flying Burrito Brothers con Chris Ethridge e Sneaky Pete Kleinow. Il gruppo realizzò The Gilded Palace of Sin: un altro disco buono, ma per lo più ignorato dal pubblico. Parsons, preda di svariate ansie e della paura di volare, si faceva di cocaina e funghi allucinogeni; così, spesso, in concerto non sapeva neanche da che parte fosse il pubblico. Quando i Rolling Stones fecero la loro tournée americana, chiamarono Parsons e i Burrito ad aprire i loro concerti: erano presenti anche ad Altamont, nel terribile show che vide l’uccisione del diciottenne Meredith Hunter, pestato a morte dagli Hells Angels.

Dopo l’uscita di Burrito Deluxe (un altro flop) la band era finita: Parsons firmò un contratto con la A&M per registrare un disco solista, ma la dipendenza dalle droghe lo rese del tutto improduttivo. Fu invitato a condividere l’ “esilio” degli Stones in Costa Azzurra, durante il quale fu realizzato il leggendario Exile on Main St. Ma le frequenti liti con la sua ragazza, l’aspirante attrice e giovanissima Gretchen Burrell, portarono Anita Pallenberg, la fidanzata di Richards, a chiedere a Parsons e signora di levare le tende (in realtà Keith, nella sua autobiografia, dirà che era stata colpa di Jagger, ma per lui è sempre colpa di Jagger, in un modo o nell’altro).

A New Orleans, Parsons sposò la Burrell, e poi iniziò a rovinarle la vita con una gelosia continua e ossessiva. Gram provò anche a smettere con l’eroina, a cui era giunto negli ultimi anni, utilizzando un metodo suggerito dallo scrittore William Borroughs: senza successo. Con sorpresa di tutti, alla fine riuscì a realizzare un disco solista, GP, che uscì nel ’73: un compatto ma vario disco di country rock che forse più degli altri risultati della carriera di Parsons ha lasciato tracce nella musica del futuro.

Con il nuovo stage name di Gram Parsons and the Fallen Angels, partì in tour accanto a Emmylou Harris, con cui era entrato in contatto qualche tempo prima. Tra invidie, prove saltate, accoglienza fredda, il tour non fu propriamente un successo. All’epoca il country rock che vinceva negli States era soprattutto quello degli Eagles: confezionato il giusto, pulito e ordinato, insomma lontano dalle asprezze e dalle bizzarrie di cui era capace uno come Parsons.

Pensare che il disco che avrebbe realizzato di lì a poco, Grievous Angel, forse gli avrebbe potuto regalare un po’ di successo in più, non fosse altro che per Love Hurts, duetto quasi pop con la Harris. Ma l’estate del ’73 vide prima la morte del chitarrista della band, il leggendario Clarence White, poi la casa di Parsons bruciò da cima a fondo, per colpa di una sigaretta lasciata accesa.

Infine la relazione tra il cantante e la moglie finì in pezzi, e benché Gram si sia consolato in fretta con una nuova fidanzata, la fine del rapporto lasciò segni profondi. Per consolarsi della perdita, spesso Parsons effettuava gite al parco di Joshua Tree, nella California del sud. Anzi, durante il funerale di Clarence White, aveva espressamente chiesto di essere cremato lì.

Il 19 settembre 1973 decise di fare un’ultima gita all’albero di Joshua, prima del tour che sarebbe dovuto cominciare nell’ottobre successivo. Ma una volta sotto l’albero, che più tardi avrebbe dato nome al disco migliore degli U2, si stordì con l’alcol e con una dose di morfina che avrebbe ucciso non uno, ma tre utilizzatori regolari. Fu sufficiente per togliergli la vita, a ventisei anni.

Nemmeno la sua salma ebbe pace: i suoi parenti volevano seppellirlo in un cimitero della Louisiana per motivi di eredità, ma il suo tour manager Phil Kaufman ne rubò la salma per bruciarla sotto il Joshua Tree, come richiesto dal cantante. L’operazione fu al limite del farsesco, tanto che ne fu tratta una commedia, Grand Theft Parsons. La sua eredità spinge le proprie onde fino ai R.E.M., ai Giant Sand, ai Calexico, agli Wilco. Di lui si può dire quello che si dice dei Velvet Underground: all’epoca nessuno comprava i suoi dischi, ma tutti quelli che hanno ascoltato le sue canzoni poi si sono messi a fare musica.

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