Ring the bells that still can ring
Forget your perfect offering
There is a crack, a crack in everything
That’s how the light gets in

Leonard Cohen, “Anthem”

Dai ottimo. Si riparte. Fase 3 e via, tutto a posto. O no? Forse no. Lasciamo a chi di dovere le riflessioni su quello che ha comportato e comporta la pandemia, dal fattore più importante, cioè le migliaia di vite perse, di persone ammalate, la crisi economica inevitabile, che verrà o che è già arrivata. Lasciamo anche da parte le considerazioni su quanto ci ha cambiato psicologicamente la pandemia, se andrà tutto bene, tutto male o tutto così così. Parliamo di musica, che alla fine non ci viene tanto male.

Se ha avuto un pregio, la quarantena, è stata quella, dal punto di vista musicale, di mettere il dito nella piaga della situazione della musica e della cultura in Italia, a tutti i livelli, dall’orchestrale della Scala al cantautore che suona nel sottoscala (ok, questa era facile).

Si sono levate voci da più parti, ci sono state iniziative, si è gridato allo scandalo in svariate occasioni. Ma posto che scendere in piazza è impossibile al momento, anche perché ti accusano subito del reato di movida, qualcuno ha messo lì ragionamenti e ha tentato un dialogo con le istituzioni per vedere se riesce a venire a capo della situazione.

Va detto che il settore musicale è ribelle di per sé, non ha mai amato tantissimo le ingerenze, è composto anche da tanti personaggi anarchici che vanno ognuno per conto proprio quando non cozzano l’uno contro l’altro. Ma ogni tanto ci si organizza o si prova a farlo.

Un’esperienza che ha riscosso subito moltissime adesioni è quella de La musica che gira, progetto/petizione che ha il compito di richiamare l’attenzione delle istituzioni sui vari problemi che la musica, soprattutto live, sta affrontando in questo periodo.

Per approfondire abbiamo intervistato Emiliano Colasanti, che oltre a essere un collega che scrive per Rolling Stone è anche A&R Executive per 42 records e che fa parte del coordinamento de La musica che gira.

Vorrei sapere come e da chi nasce il progetto “La musica che gira”

La musica che gira è un progetto di resistenza umana, prima di tutto.
All’inizio del lockdown ci siamo ritrovati in tanti tra manager, etichette discografiche, live club, artisti e anche maestranze a porci tante domande su quello che la pandemia avrebbe lasciato in dote al mondo della musica.

La paura e l’incertezza nei confronti del futuro ha lasciato subito spazio alla voglia di essere propositivi e provare a fare sentire la nostra voce per salvare il salvabile, tutelare quelli che nel nostro mondo – e sono tanti, e purtroppo molti anche invisibili – non godono di nessun tipo di copertura e in qualche modo provare a imbastire un’idea di futuro possibile dato che il mondo della musica era già vittima di difetti, definiamoli così, strutturali che ci portiamo dietro da tantissimo.

Erano tanti anni che noi che veniamo dal mondo indipendente, e non solo, cercavamo di fare qualcosa che ci vedesse come un fronte compatto e unito. Per tutta una serie di ragioni non siamo mai riusciti a farlo, ma forse il momento giusto era proprio questo.

Quali sono gli obiettivi che vi ponete?

La nostra vuole essere una protesta propositiva e non distruttiva, per questo ci siamo uniti dietro una sorta di manifesto programmatico dove proviamo ad affrontare attraverso dei punti molto chiari quella che per noi potrebbe essere una riforma sostenibile del settore musica.

Diciamo che la nostra non vuole essere soltanto una proposta emergenziale ma punta anche a tutto quello che accadrà dopo la ripartenza. L’obiettivo primario è quello di un confronto diretto con le istituzioni che molto guardano all’universo della musica come a una specie di universo alternativo, alieno, leggermente (o anche fortemente) bistrattato rispetto agli altri settori dell’industria culturale.

Le ultime evoluzioni, compreso lo spostamento dei grandi eventi che fanno capo ad Assomusica, ha cambiato in qualche modo l’orizzonte?

Il punto è che non esiste solo il mondo dei grandi eventi e tutti noi sappiamo benissimo che il mondo della musica ha il suo motore proprio nelle realtà meno visibili e da copertina. Penso al lavoro oscuro che fanno i live club e che sono i primi portatori di musica nelle città e nelle periferie.

Ci sono tanti spazi che vorrebbero ripartire ma ancora non sanno come e perché, anche perché le regole che sono state messe in atto adesso rendono abbastanza impossibile l’adattamento ai protocolli senza esborsi economici difficilissimi da assorbire. Lo stato dovrebbe fare in modo che nessuno venga lasciato a se stesso. Ci riuscirà? Vedremo.

Quando parlate di “riforma definitiva del settore” a quali misure concrete fate riferimento?

I quattro punti fondamentali del nostro documento programmatico sono questi:

  • Garanzie a tutti gli operatori l’accesso alle tutele sociali (musicisti, tecnici, artisti…)
  • Supportare le attività della musica dal vivo
  • Stimolare una riforma definitiva del settore e una ripartenza
  • Incentivare gli investimenti green su innovazione e tecnologi

Per noi poi è importante fare passare il concetto che il nostro settore è un settore lavorativo come tutti gli altri. Non chiediamo privilegi di casta, ma una riconoscibilità che ancora non ci viene concessa.

Per esempio non esiste una mappatura corretta e credibile degli addetti ai lavori del settore musica, quindi ci sono tantissimi che non godono di alcuna tutela e non sono protetti neanche dalle associazioni di categoria che ovviamente si occupano solo dei loro iscritti.

Una domanda che forse non dovrei fare a te, ma che mi sembra motivata. Vedo una confusione infernale su quello che si può e non si può fare a livello di musica live. Molti degli appassionati di artisti emergenti per esempio si chiedono se sia “vietato” o comunque in qualche modo boicottato il classico concertino del sabato sera nel locale da meno di 100 posti. Si può fare chiarezza su questo punto?

Parlare di boicottaggio è fuoriluogo, quello nei concerti nei club è un tema che tornerà vivo fra qualche mese, con la speranza che i club esistano ancora nel momento in cui ci si ricorderà anche di loro. Adesso, da DPCM, sappiamo che i concerti al chiuso fino a 200 persone, mantenendo distanziamento sociale e posti a sedere, si possono fare, così come quelli all’aperto fino a mille persone.

Il punto è come si fa a farli se per esempio è vietata la somministrazione di bevande? Come fa un promoter a sostenere le spese organizzative di un concerto? La verità è che in Italia esiste un modo molto sottile di vietare le cose che è vietarle permettendole. Chissà, al momento le situazioni che effettivamente potranno fare concerti quest’estrate sono pochissime.

Le alternative virtuali

In attesa di vedere se sarà possibile un riconoscimento generale musicista=lavoratore, con onori e oneri a livello di tutele (chi del resto può capire meglio la situazione di una categoria come quella della stampa, per sempre prigioniera del calembour secondo cui “fare il giornalista è sempre meglio che lavorare”? Che è vero, comunque), ognuno si muove come può.

A livello di diffusione online di musica si è riscontrata principalmente, in tempi di pandemia, un’accelerazione di una tendenza già in corso da anni, cioè il fatto che si punti molto di più sui singoli e molto meno sugli lp, anche per questioni logistiche, ma di sicuro soprattutto per privilegiare l’ascolto “disordinato” che è il cuore dello streaming.

Accanto al lavoro “di studio”, sono sorti ovunque palchi virtuali che ognuno ha allestito da casa propria, con dirette e differite, dal proprio account social o da quello di media che fornivano accoglienza.

O che la forniscono, tipo noi, vista l’ottima accoglienza che ha avuto #TRAKSSTAGE.

Qualcuno sta anche provando a venderli, questi eventi, come succede sulla piattaforma DICE, che giusto domani ospiterà il concerto di Venerus dal Museo della Scienza e della Tecnica di Milano. Il tempo dirà se si tratta di una strada possibile o velleitaria.

C’è anche chi, come i Mombao, ha deciso di portare alle estreme conseguenze il concetto di “virtuale” e ha tenuto un concerto dentro un videogioco.

Avete deciso di tenere un concerto dentro un videogioco, forse la quintessenza del “virtuale”, e di farne anche un piccolo documentario. Ci raccontate com’è andata e qual è stata la cosa più strana dell’esperienza?

Durante la quarantena, ad Anselmo è stato regalato un set da gamer e ha incominicato, con alcuni suoi amici a giocare a Rust, un gioco di sopravvivenza in cui ti svegli su un’isola completamente nudo con una pietra in mano.

Per sopravvivere devi raccogliere risorse, cibo, acqua, costruirti una base, difenderti dagli animali ma soprattutto dagli altri giocatori. Quando abbiamo scoperto che si potevano costruire strumenti musicali, ci è venuta l’idea folle. Stavamo soffrendo molto l’impossibilità di vederci di persona per suonare e stavamo cercando di pensare “out of the box”, questo era da sempre un piccolo sogno nel cassetto delle idee surreali che ci passano in testa una tantum!

Isacco Zanon, il nostro manager, ha poi documentato tutto aiutandoci a creare il documentario. Dopo mesi passati a cercare di sopravvivere, la cosa più strana è stata incominciare a ricevere aiuti dagli altri giocatori che si erano interessati al nostro tentativo, a un certo punto, si presenta questo omino vestito con una tuta anti-radiazioni nucleari e ci deposita per terra una caterva di… bistecche di cinghiale!

Pensate che sia qualcosa che sia ripetibile in futuro, con la giusta preparazione e magari anche su scala più vasta?

Abbiamo contattato i creatori di Rust, i quali ci hanno risposto e ora stiamo capendo se c’è l’interesse da parte di entrambi a procedere per un esperimento più complesso, presentandolo alla community. Potrebbe essere interessante, di sicuro con un altro sviluppo.

Penso che la gamificazione del reale sarà un approccio sempre più utilizzato mano a mano che le tecnologie grafiche e di AR si svilupperanno, sono un grande fan della fantascienza e mi capita spesso di immaginare intersecare le applicazioni future con le tecnologie attuali e i loro sviluppi.

Immagino che in uno dei possibili futuri, si potrà essere collegati direttamente alla rete senza bisogno di device esterni, e i flussi emotivi possano essere condivisi in prima persona, provando registrazioni di sensazioni senza bisogno di riproduzioni esterne. Come sempre, potrebbe essere una cosa meravigliosa così come un incubo al cubo.

Sta a noi proporre la visione che preferiamo, nel mondo che vorrei, questo permetterebbe di capire al volo le necessità altrui come proprie, una sorta di empatia totale e, per esempio, potrebbero finire le guerre grazie a diplomazie emozionali. Ritornando a noi, per ora abbiamo disinstallato il gioco e stiamo pianificando strategie folli per tornare a suonare insieme quanto prima, ci manca da morire!

La ripresa: che tour ci aspettano?

In effetti, è chiaro che si tratta di palliativi: la musica dal vivo è decisamente un’altra cosa e nessuna esperienza virtuale potrà mai essere al pari di un concerto live.

Grande o piccolo, questo sia ben chiaro: a noi piacciono i concertoni negli stadi, i festival all’aperto, le serate in teatro ma anche (a volte soprattutto) l’oretta di musica in un pub in cui puoi guardare in faccia il chitarrista e sei quasi seduto in braccio al bassista. O alla bassista, che è l’opzione che preferisco.

Intanto perché tutti hanno iniziato così (a parte quelli dei talent, ma tanto poi di solito ci passano anche loro quando è finito il quarto d’ora di celebrità). E poi perché sono spesso esperienze più raccolte e che ti rimangono molto più addosso. Quindi? Quindi inventiamoci qualcosa.

Sta provando a farlo, per esempio, Eleonora Tosca, in arte Eleviole?, cantautrice dall’animo piuttosto bohémien che progetta un tour abbastanza singolare: in auto, fermandosi in piazza o in spiaggia, chiedendo i permessi e sperando di evitare l’arresto per assembramento.

So che hai in mente un programma “alternativo” di tour che hai pensato per la prossima estate. Ce lo vuoi raccontare?

Non riesco a rassegnarmi a un’estate senza concerti, soprattutto perché la musica live è fatta anche da una fitta rete di micro eventi dove si fa sentire proprio il cantautorato così detto “emergente”. 

Ho pensato che si potrebbe sviluppare una sorta di moderno Cantagiro, con un vero e proprio mini palco viaggiante, acustico, immediato e con un grande impatto visivo. Una cosa agile e itinerante che diventi proprio il filo conduttore tra artisti. 

Penso sia necessario farci sentire e far sentire che abbiamo voglia di vivere e suonare, nonostante tutto. 

La tua è un’iniziativa che avrà una forte impronta femminile. Ci sono alcuni stereotipi che vuoi sconfiggere?

In questo momento storico le artiste sono fortemente penalizzate. Se ti proponi a una label medio grande spesso la risposta è “bello, ma abbiamo già xxx”. Se girata al maschile è una risposta inconcepibile. 

Mi piacerebbe riuscire a sconfiggere lo stereotipo della cantautrice indie emaciata che fissa il vuoto mentre fuma, che in qualche modo è più “oggetto” che “soggetto”. 

Siamo tante, ciascuna con il proprio sapore, e siamo cazzute. Mi piacerebbe che si ponesse l’attenzione su questo più che su un cliché estetico. 

Per quanto tutto quello che è successo non sia minimamente responsabilità dei musicisti che anzi attraverso i social si sono fatti in quattro per stare vicini agli appassionati, pensi che ci sia la necessità di andare a “riprenderselo”, anche fisicamente, il pubblico?

Penso di sì. La musica, soprattutto quella inedita, dovrebbe in qualche modo “invadere” positivamente tempi e spazi. Questo momento potrebbe essere anche un modo per cercare un rapporto one-to-one tra pubblico e artista, rivedendo le classiche dinamiche. Chissà! 

Le priorità della musica

Già, chissà. Perché mai come ora è evidente che si vive totalmente alla giornata, anche in questo ambito, come in tutti gli altri. Soltanto il tempo potrà raccontarci di aperture ulteriori, di nuove chiusure, di un virus sparito alla luce del sole estivo o capace di recrudescenze autunnali.

Rimanendo sempre sul focus musicale, sarebbe fondamentale in definitiva ricordarsi a ogni livello che musica, cultura e tutto ciò che gira intorno rappresenta lavori, mestieri, professioni per niente superflui. Anzi, del tutto fondamentali alla nostra sopravvivenza quotidiana. Fare il pane o curare il diabete ha la priorità, certo, ma fare musica, e tutto quello che intorno alla musica gira, è importante quanto vendere gelati, fabbricare scarpe, tosare il pelo di Fido. Né di più, né di meno.

Ma è giusto essere ottimisti. Proprio perché la musica, come la luce di coheniana memoria, si infila in ogni crepa della realtà, le soluzioni si cercheranno e si troveranno. E saranno versatili e creative, adattabili a tempi difficili. Che, prima o poi, finiranno.

Fabio Alcini