Recensione e streaming: After Crash, “#LOSTMEMORIES”
Si chiama #LOSTMEMORIES l’esordio degli After Crash: Francesco Cassino e Nicola Nesi, figli di una sempre produttiva e interessante Bologna, hanno pubblicato un disco in cui ritmi e influenze si mescolano, in nome di un suono del tutto al passo con i tempi.
Disco che è passato attraverso le sapienti mani di Andrea Sologni (Gazebo Penguins) per la registrazione e il missaggio nel suo Igloo Audio Factory, con il mastering finale al Calyx Studio di Berlino.
After Crash traccia per traccia
[soundcloud url=”https://api.soundcloud.com/playlists/122139267″ params=”color=ff5500&auto_play=false&hide_related=false&show_comments=true&show_user=true&show_reposts=false” width=”60%” height=”100″ iframe=”true” /]Si parte con We Leave, un congedo messo in apertura per spiegare che sì, partire è un po’ morire, ma anche rinascere: si seguono le onde del pezzo senza chiedersi troppo sull’origine dei suoni, perché il discorso è fluido e “tira dentro” senza difficoltà. Ritmo più appuntito quello di Texture in Pectore, con brani di aggressività più massimalista.
Voce femminile e morbidezza diffusa in Don’t Change for me: la voce è utilizzata al pari degli altri strumenti, con brevi accenni che punteggiano una struttura forte ma anche piuttosto chiaramente pop, a mostrare un altro lato del duo bolognese.
Ancora voce, ma questa volta maschile e articolata in senso tradizionale, in Leica, che vede l’intervento di Marco Borgazzi e degli archi in un finale morbido ed enfatico. Tutt’altri ritmi in Overrated, che abbandona le piume per i bastoni, in un percorso circolare piuttosto ipnotico.
Timeless Room parte piano per poi acquistare energia lungo il percorso. Delplace sceglie contesti cinematografici, per proporre poi atmosfere lunari e un percorso molto gentile e intessuto di sonorità appena accennate.
Organic Summer si stende sotto la voce narrante con approccio piuttosto minimalista e, si direbbe, documentarista. Il pezzo si dispiega con grazia e potenza nella seconda parte. Si chiude con Transports, che sceglie nuovamente toni soft nell’apertura, ma con l’andare del pezzo la tensione aumenta fino a livelli piuttosto elevati, con breve finale etereo e liberatorio.
Con buona pace degli integralisti, il suono del 2016 (ma anche del 2014, 2015 e 2017) è questo: niente steccati, niente barriere, etichette che si staccano appena appiccicate. Gli After Crash capiscono perfettamente, e fin da subito che stare a cavillare tra pianoforte vero e finto, canzoni cantate e no, post rock e rock, elettronica e armonica a bocca, ha poco senso.
Però il tutto va fatto con criterio, i pezzi del puzzle si incastrano solo se si trova il posto giusto dove incastrarli: e a giudicare da questo esordio la band ha già capito non soltanto dove incastrare i singoli pezzi, ma anche che cosa rappresenterà l’intero puzzle, una volta che sarà terminato.