Recensione: Afterhours, “Folfiri o Folfox”
La maggiore fra le rock band italiane (con molte scuse a Marlene e Verdena, ma la realtà è la realtà) torna a farsi sentire. Oddio, degli Afterhours si è parlato davvero parecchio negli ultimi tempi, e non sempre a proposito. La decisione di Manuel Agnelli di fare il giudice a X Factor ha sconvolto lo stagno dell’indie italiano in modi forse un po’ eccessivi. Come scoprire che un parente stretto si è appena iscritto a Casa Pound, diciamo. Ma non è proprio così, e giudicare senza aver visto forse può essere sbagliato.
Così come giudicare senza aver ascoltato: ma per fortuna abbiamo avuto modo di ascoltare Folfiri o Folfox, il nuovo doppio album degli Afterhours, un disco di svolta ma anche un punto fermo di una carriera sempre più densa di significato.
Il disco gira intorno al dolore della morte del padre di Agnelli (Folfiri e Folfox sono due medicinali chemioterapici), ma dire che ci “gira intorno” è fuorviante. Lo colpisce al centro, lo affronta di faccia, ci litiga e alla fine si concilia con esso. Come scrive lo stesso Agnelli nella lettera di presentazione: “Mi sono trovato improvvisamente in mezzo all’oceano, da solo, senza terra in vista. Definitivamente adulto. La vita è cambiata, i valori sono cambiati, le cose che mi interessano sono cambiate”
Afterhours traccia per traccia
La traccia d’apertura del primo cd è Grande, che focalizza subito il discorso sul dolore principale tra quelli trattati nel disco: la morte del padre, coniugando però il pezzo su una promessa fatta a un bambino, “noi non moriremo mai”. Il linguaggio sonoro è quello abituale della band, ma che il livello sia immediatamente molto alto è facile da intuire.
Si prosegue con Il mio popolo si fa, urlata e scelta come singolo nonostante alcune evidenti asperità. Il tema può essere la droga, ma non di un tipo solo: questo “popolo” ha come nuova triade Dio, fortuna e trans, soluzione piuttosto pericolosa ma del tutto contemporanea. Si passa al pianoforte con L’odore della giacca di mio padre, episodio molto morbido e intenso che stacca la spina per un attimo a livello di volume.
Non voglio ritrovare il tuo nome torna a picchiare ma senza esagerare, nella prima canzone totalmente “da Afterhours”, per ritmo, struttura e sapori. Rock and roll di consistenza quello di Ti cambia il sapore, con dissonanze crescenti e domande riguardo al divino altrettanto emergenti. Intro ubriaca e blues (o giù di lì) per San Miguel, che in realtà evolve in direzioni tra psichedelia e noise, del tutto imprevedibili.
Qualche tipo di grandezza è un altro dei pezzi che faranno felici i fan di Hai paura del buio, nonché i partecipanti ai concerti, visto anche il vigore espresso nel corso della canzone. La strumentale Cetuximab accentua ulteriormente la voglia distruttiva. Il primo disco si chiude però in modo morbido, con gli accordi di Lasciati ingannare (una volta ancora) che prende la piega di una ballata in cui però la voce di Agnelli non si tira indietro (non lo fa mai) di fronte agli acuti.
Il secondo disco si apre con Oggi, struttura melodica piuttosto classica, pianoforte, chitarra, voce e batteria che si mette discretamente in evidenza, per un pezzo dal carattere gentile e malinconico, incentrato di nuovo sul dolore. Ma la struttura cambia in corsa e ribalta i giochi: non la prima e non l’ultima volta nel disco.
Folfiri o Folfox, la title track, è tra i pezzi più cattivi e più sperimentali del disco, con voci gutturali (un po’ black metal, un po’ film fantasy), filastrocche isteriche, grande volume elettrico. Le dissonanze sono acute anche in Fa male solo la prima volta, che ha incisi tra punk e grunge e che non lesina in durezza.
Al contrario Noi non faremo niente ammorbidisce i toni ma si veste di toni molto scuri. Né pani né pesci semplifica il discorso: un riff e la voce costruiscono gran parte dell’impatto emotivo, almeno fino all’ingresso del basso. Un violino introduce Ophryx, strumentale che lascia presto spazio a Fra i non viventi vivremo noi, pezzo punk a tutto tondo, tirato a più non posso, con tempeste sonore in cui le percussioni si mettono in evidenza.
Accordi semplici introducono Il trucco non c’è, altro pezzo che si nutre di dissonanze e suggestioni dolorose. Il disco si chiude con Se io fossi il giudice, canzone curiosamente ricca di speranza, che mette un punto a tutta la sofferenza riversata nei solchi del disco.
Di solito di fronte a dischi come questo si dice “la band è arrivata a un tale livello da potersi permettere qualunque scelta”, ma visto il casino successo per X Factor probabilmente non è il caso. Quello che si possono permettere gli Afterhours è quello che la vita ha dettato loro: un disco ricco di dolore, ora coniugato nella chiave di rock forse mai così crudo (e di crudezza, in passato, ne hanno fatta vedere parecchia).
La scelta del disco doppio non è megalomania: una volta ascoltato il disco ci si accorge come, in qualche modo, fosse necessaria a circoscrivere tutti i lati di questioni molto ardue. Per citare ancora la lettera di presentazione di Agnelli, il concetto è questo: “In fondo è questo che resta a un gruppo di rock’n’roll. Non certo la rivoluzione, ma raccontare le cose che pochi raccontano, usando un linguaggio che gli altri non hanno il coraggio di usare. Questa è la nostra celebrazione della vita, del passaggio di energia, di quello che siamo nel bene e nel male. È un porto, un punto di arrivo da dove ricomincia tutto”.